Astrazioni e distrazioni: il buio a occhi aperti, le emozioni ad occhi chiusi. Le Grand Fooding a Milano e il sushi di lingua di Bottura al buio

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

E guidare come un pazzo a fari spenti
nella notte per vedere
se poi è tanto difficile morire…

La purezza, Frans Praetorius cercava la purezza. Nel suo classico Les Saveurs, pubblicato nel 1891, l’autore afferma, con assoluta sobrietà scientifica, che i sapori sono quattro: acido, salato, insipido, amaro. Solo dopo insistite petizioni anonime, il maestro aggiunse un quinto sapore, il dolce, che per ragioni che non è il caso di indagare, aveva eluso la sua perspicacia.
Purezza e astrazione: sapori senza sostanza. Tanto che quando un suo discepolo, Ismael Querido, si azzardò ad abbinare a ciascun sapore un articolo (una zolletta di zucchero, un cubetto di aloe, un’ostia di cotone, uno spicchio di cedro e un granum salis), il maestro Praetorius eccepì in modo inconfutabile che lo zucchero, oltre a esser dolce, ha gusto di zucchero e che l’inclusione del cedro costituiva certamente un abuso.
Querido non si perse d’animo e nel suo locale incoraggiò non solo il singolo assaggio, ma anzi favorì , invero senza alcuno scrupolo, la rotazione, la successione e persino l’amalgama tra i cinque sapori: migliaia di piccole piramidi di sapori diversi dapprima anonimamente grigiastre, poi colorate in giallo, nero, bianco, rosso e azzurro, consentirono l’abominevole e drammatico errore delle combinazioni, in una miriade di differenti sfumature di sapori. Il trionfo dell’agrodolce, in sostanza. Una bestemmia, una promiscuità che lo condusse alla rovina. C’est la fin du monde, disse Praetorius. Frase non priva di una qualche profetica verità, dato che entrambi i precursori passarono ben presto a miglior vita.
Il testimone della cucina pura, intorno al 1915, passò a Pierre Moulonguet che, più convincente di una poesia poetica o di una pittura pittorica, optò senza ambagi per una cucina culinaria. Una folgorante intuizione riportava sulle tavole gli antichi sapori della vitella e del salmone, del pesce e del maiale, del prezzemolo e dell’omelette surprise, esiliati dal tiranno Praetorius. Bando però ai colori, niente piatti ben presentati, niente vassoi: gli attoniti ed estasiati palati avrebbero goduto di una grigiastra massa mucillaginosa, mezzo liquefatta. Ogni pietanza vestiva l’amorfa compattezza di un invariabile coagulo terroso: oggi come ieri, domani come oggi e tutto sempre uguale.
Nel 1932 si verifica il miracolo: un tizio qualsiasi, Juan Francisco Darracq (J.F.D.) apre un locale in cui si servono piatti che non si differenziano in niente dai più antiquati. La maionese è gialla, il roast-beef rosso, le verdure addirittura verdi, la cassata arcobaleno: colori e sostanza. Basta molto meno per esser considerato un reazionario.
“ Darracq, allora, scodella il suo uovo di Colombo: sereno con la sicurezza che dà il genio, esegue il breve atto che lo fisserà sulla più alta cima della storia della cucina. Spegne la luce. E’ così inaugurato, in quell’istante, il primo Tenebrarium”.
Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares scrissero queste pagine nel 1967: ironia, riferimenti taglienti e divertiti sulle ripide salite di una cultura esagerata, disegnano un mondo della cucina imbrigliato dai codici, dove lo stesso superamento delle regole richiede a sua volta una precisa ulteriore codificazione. Mode, finta evoluzione, sostanziale immobilismo.

La vera rottura non sta nella decodificazione di una gastronomia e nelle sua successiva ricodificazione ( quindi le ricette borghesi sostituite dall’haute cuisine, sostiutita a sua volta dalla cottura destrutturata), quanto nella sua decodificazione e basta, per un ritorno alla libertà.

Ho avvertito un certo prurito nel riportare queste parole di Alexandre Cammas, critico gastronomico francese, fondatore e animatore del movimento Le Fooding, la cui astronave è atterrata per la prima volta in Italia, a Milano, in una serata evento tra cucina, moda, design, arte, musica e grafica: libertà, appunto, di testare, sentire, navigare nello spirito del tempo cercando di cogliere ciò che sta caratterizzando il gusto della nostra epoca e modellarlo di conseguenza.
Si legge Le Fooding, si scrive movimento gourmet-visivo-sensazional-musicale declinato pop ma di origine snob: pret-à-manger di chef aristocratici che si regalano a quelli della notte per democratizzare la cucina, per trasformarla da “taste” a “feeling”. Cuochi non più “figli delle stelle” ma della spontaneità, non della nouvelle cuisine ma dell’emergente neobistrot.
Brrrrr….rabbrividiamo. Non basta la presenza di Carlo Cracco e Inaki Aizpitarte a riscaldarmi, forse un po’ di tepore mi sfiora con Davide Scabin e René Redzepi, ma il desiderato, confortevole calore lo porta, alla fine, Massimo Bottura.
Si parla di performances, esse plurale. Mi colpisce l’idea di Bottura: un “sushi di lingua tiepida con mostarda di mele” in una dark room al grido di “un boccone la dice tutta”. Al buio.
Il lettore attento, anche uno solo, arrivato fin qui, comincerà a maturare un sospetto: ebbene sì, il grande cuoco dell’Osteria Francescana, si è ispirato ad un racconto in cui uno chef, perseguitato dai critici, decide di imbandire una tavola e spegnere la luce, favorendo in tal modo il ritorno al primitivo, al palato, al gusto non filtrato dalla vista. Borges e Bottura, il cerchio si chiude. In un tenebrarium.

Cammas, l’ideatore de Le Grand Fooding, sembra un personaggio di Borges: inventa e torna indietro, come strattonato da un elastico. Non basta rivendicare una cucina spontanea e libera, viva, multiforme e tollerante. Non basta rompere gli schemi se poi li si ricrea attraverso parole come feeling e fooding, alimentando la babele del radio-building, del cool, del lifestyle, tra design e moda, tra stile e finger food. Non è convincente affermare che a una milanese basta un pareo per far girare la testa a tutta Formentera se vogliamo parlare di naturalezza e understatement: nel cibo, poi. Etichette, dov’è la libertà se si ha bisogno di etichette? Non sentite profumo di moda e di ulteriori, non richieste, codificazioni?

Il breve racconto di Borges si apre con un’apologia dell’unico tenebrarium argentino, tentativo degno di lode, nonostante fosse ben lungi dal poter gareggiare coi suoi fratelli maggiori di Parigi o Amsterdam. Le lodi vanno al cuoco Ubaldo Morpurgo, la cui voce risuonava, purtroppo, nel deserto: “due volte abbiamo partecipato a straordinari cenacoli nell’oscurità, i volti intravisti erano diversi, ma il fervore comunicativo il medesimo. Non si cancellerà dalla nostra memoria la musica metallica delle posate e lo strepito occasionale di un bicchiere in frantumi”.
Il lato oscuro delle mode, il bearsi di niente.

Massimo Bottura e il buio: una provocazione sicuramente in linea con la mission (?) dell’evento, in nome di una spontaneità e immediatezza primitiva da recuperare nel mondo del cibo, quasi con curiosità infantile.
Ma anche una provocazione dall’interno, forse al Fooding stesso che lo ospita: il buio come le fette di culatello agitate sotto il naso di Laudadio. Il buio perdita di contatto, disinnesco della parola, delle troppe parole, spesso vuote, un richiamo felliniano dalla Voce della Luna: se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse riusciremmo a capire. E non a caso, forse, prepara un sushi di lingua: fa a fette la lingua, porta l’attenzione sul boccone: zitto e mangia.
Il grande cuoco sa che non c’è sapienza senza esperienza e che nell’esperienza risiede il senso delle cose: l’esperienza necessita di tutti i sensi, vista compresa.
Il buio, il tenebrarium, sembra un accessorio esterno, l’ involucro modaiolo, una nuova regoletta, l’ennesima codificazione che ci priva della possibilità di crescere e provare emozioni. Sterile giochino.
Forse basterebbe chiudere gli occhi.

…chiudere gli occhi per fermare
qualcosa che è dentro me
ma nella mente tua non c’è.
Capire tu non puoi,
tu chiamale se vuoi
emozioni

Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares
Cronache di Bustos Domecq: Un’arte astratta – Einaudi

Paola Santoro – Ticket per l’Eden – D di Repubblica


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