Food e comunicazione. Facciamo un po’ il punto in Italia

Pubblicato in: Polemiche e punti di vista

di Marco Contursi

Questo pezzo nasce da una severa riflessione, a tavola, con un amico giornalista e buongustaio. Mi rendo conto che i temi trattati sono vari e la disamina un po’ lunga ma certe cose devo dirle, per una sorta di coerenza con me stesso. Perché a indignarsi senza parlare si è complici.

Ma come sta combinata la situazione di guide e comunicazione del food, al giorno d’oggi? So già che qualcuno si dispiacerà, e ho riflettuto molto prima di mandare questo pezzo, ma se farà una lettura non superficiale, capirà che scrivo questo anche nel suo interesse, perché se alcune cose vanno così, è perché pochi hanno il coraggio di esporsi e di remare contro corrente, dicendo come stanno le cose.

Guide. Partiamo col dire che le guide, la quasi totalità, non hanno persone che si dedicano a questo a tempo pieno ma appassionati che spesso fanno tutt’altro lavoro  in cambio di un rimborso spese, sempre più esiguo se non gratis o lunghi pagherò per alcune guide. In pratica le guide sono fatte da volontari. Tranne una che invece assume i suoi ispettori. Questi volontari ci rimettono di tasca loro perché i rimborsi sono forfettari ( tipo 30 euro a scheda) e non coprono neanche le spese del pasto, figuriamoci quelle di carburante ed autostrada, oltre che dell’eventuale accompagnatore.

Ma chi garantisce che un semplice appassionato ne capisca di cibo? Qui si apre uno dei temi più dibattuti poiché storicamente ad un giornalista gastronomico non era richiesto nessun titolo e quindi valeva il “scribo ergo sum”. Mi è capitato sentire o leggere mostri sacri affermare che “questo olio è acido”, quando la prima cosa che insegnano ai corsi di analisi sensoriale degli oli è che l’acidità è un parametro solo chimico, o ritenere un miele cristallizzato, adulterato mediante l’aggiunta di zucchero. Guardandomi intorno garantisco che l’ 80% di chi scrive di food per le guide è tanto se ha fatto un primo livello da sommelier. Stop.

E se qualcuno di questi collaboratori di guide ha, pure se non ha fatto corsi, le competenze richieste, magari perché viene da una famiglia di produttori, o per una militanza sul campo ultradecennale (ne conosco di bravissimi che non hanno fatto corsi), ce ne sono tanti altri che esprimono giudizi senza aver cognizione di quello che hanno davanti e quindi confondono un salume industriale per uno artigianale, un olio difettato per uno buono, un piatto slegato per uno ben fatto.

Oltretutto le guide non si vendono più come prima e quindi entrano prepotentemente in campo gli sponsor. Mi spiego, se io ispettore di una guida so che il mio rimborso spese lo paga uno sponsor, che quasi sempre è un produttore di materie prime o attrezzature per la ristorazione, magari sarò più benevolo con quei locali che usano questi prodotti. Si è sempre detto che per entrare nelle grazie di una prestigiosa guida bisognasse comprare una marca di acque minerali, ma oggi che tutte le guide si reggono solo sugli sponsor, quante possono dirsi veramente libere? Il condizionamento di chi visita i locali, anche inconscio c’è ed è inutile negarlo. In alcuni casi, pochi e circoscritti, questo condizionamento è minimo se non nullo, ma non credo sia la regola generale. Ripeto, anche a livello inconscio, se il mio sponsor è ad esempio l’acqua X e vado in un locale e la trovo, già mi predispongo bene, oppure a parità di scheda, dovendo fare una scelta, quasi sicuramente, preferirò il locale che è cliente di uno dei miei sponsor, rispetto ad uno che non lo è.

Inoltre c’è un altro problema, gli ispettori di una guida sono, per ogni regione, alcune decine, chi si occupa di “allineare” il loro livello di competenza nel giudicare? Vi è mai capitato di seguire il consiglio di un amico nello scegliere un locale e trovarvi male? Ovviamente non parlo della giornata storta ma dell’uso di materie prime scadenti. A me è capitato spesso, perché se non hai “studiato” il cibo non saprai riconoscerne i difetti e quindi tutto ti sembrerà ottimo. Ecco, chi scrive per una guida non deve superare nessun esame per farlo ma si viene arruolati per conoscenza o per il semplice proporsi, accontentandosi di rimborsi spese che non sempre coprono neanche il pranzo consumato. E quindi chiunque va bene purchè   lo faccia senza accampare troppe pretese economiche.

Anzi, per qualcuno è normale, che il curatore regionale di una guida sia una persona che faccia un altro lavoro, senza capire che chi ha funzioni di coordinamento debba essere un professionista e non un semplice appassionato, in una ottica di correttezza verso chi comprerà quella guida. Le guide si vendono sempre meno e soprattutto hanno perso credibilità, ma nessuno fa niente per invertire questa rotta. Anzi…

L’unica soluzione per alzare l’asticella sarebbe una guida con ispettori di professione, preparati da corsi, sedute di assaggio e da una militanza sul campo affiancati da ispettori esperti, e con sponsor che non siano del settore: una CHIMERA. Punto e basta.

Riviste di food, cartacee o online. Idem con patate.

Ho visto gente fare un corso sul vino e subito dopo scriverne su blog e siti vari. Ma davvero fate? Io sono sommelier con tutti e 3 i livelli superati ma non mi sognerei mai di scrivere di vino su riviste specializzate, poiché per essere padroni di una materia e quindi scriverne o insegnarne, servono anni di approfondimento. Qui trovi gente che si diplomano sommelier e subito iniziano a tenere lezioni, che poi se gli fai una domanda più particolareggiata non sanno nulla. Ma tanto vale sempre il “scribo ergo sum”, e i lettori mica si chiedono “Ma questo a che titolo scrive??”.

Questo è il male della società odierna che ha fatto credere che chiunque può essere quello che vuole, senza studiare (tanti anni) per diventarlo.

E quindi arriviamo ai food blogger, gente spesso ignorante, non solo della materia ma anche dell’italiano, che racconta il cibo ponendo l’attenzione sul fatto che i piatti debbano essere esagerati, smodati per essere buoni. Il trionfo del food porn, che confonde piatti tipici di regioni diverse, che scrive bracieria, invece di braceria, che chiama “provolone del monaco”, un caciocavallo qualsiasi, che esalta salumi da discount e formaggi di terzo ordine, che porta in cieli chi copre tutto di improbabili salse pistacchiose. Tanto a chi segue queste persone importa poco o niente di ciò che mangia, basta che si fotografabile per fare una storia su instagram.

Il trionfo quindi del cibo spazzatura, su quello realmente artigianale e di qualità. Perché non è di qualità un panino con 20 ingredienti diversi e salse varie che colano dappertutto.

Ovviamente tutto ciò viene esaltato dietro lauto compenso, anche se non viene mai detto perchè sembrano sempre post disinteressati.

Oltretutto per farsi volere bene da chef e affini basta parlarne bene, magari usando parole forbite che fanno tanto “esperto”. A leggere certe recensioni di pizze o di piatti sembra quasi che chi le scrive abbia mangiato dei funghetti psichedelici, visto che descrive il paradiso con tutti i santi. Un profluvio di “Spettacolare”, “Iconico”, “Immancabile”, “Onirico”, “Fiabesco”, Memorabile”, “Incomparabile”, “Celestiale”.

Ma diamine, state parlando di pizza…..di cibo….un po’ di buonsenso no???

Sinceramente mi dispiace, poiché mentre alcuni foodblogger sono irrecuperabili, altri sono ottimi comunicatori e, magari, anche con studi universitari in materie inerenti il food ma poi sono i primi ad inciampare in strafalcioni, perché non hanno approfondito la materia che trattano (salumi, formaggi ecc) e dicono sciocchezze senza neanche accorgersene.

D’altronde, sono referente Onas Campania da 15 anni, MAI visto un blogger ai miei corsi, eppure tutti a parlare di salumi. Ma può mai essere che non gli venga mai neanche una piccola curiosità di capirne di più, pure se ai loro follower basta che dicano “squisito” “eccezionale” “da far tremare le gambe” e similari, per ritenere valido un salume????? Bah….

Come pure non capisco perché alcuni di questi blogger inizino raccontando con video, anche divertenti, le loro cene e poi passino, nel tempo, a spaziare a tutta la loro vita privata, narrando, sempre con video, di quando vanno dal meccanico, dal prete, dal barbiere, dal podologo ecc…..ma se io ti seguo perché mi piacciono i video che metti di pizze e panini, perché dovrei essere interessato a guardarti mentre ti togli un callo????? E se interessato lo sono, e quindi ti seguo mentre lo fai, un giro io da uno strizzacervelli dovrei o no farlo??!!

Perché il food deve essere un settore dove chiunque può fare l’esperto senza averne titolo????

Questo è il risultato della democratizzazione dell’informazione che prima era in mano a giornalisti professionisti e in trasmissione o sulla carta stampata veniva invitato chi realmente aveva titoli e competenze per parlare, ed aveva delle regole, mentre oggi anche lo scemo del paese si può aprire un blog e pontificare di cibo che insieme al calcio è l’argomento in cui ogni italiano si sente espertissimo.

E ovviamente trova terreno fertile in altri scemi di paese che preferiscono un panino esagerato ma instagrammabile ad uno fatto con ingredienti di qualità ma meno appariscente.

Mai che parlino di prodotti tipici o di veraci trattorie, solo pizze e panini o locali All can you eat.

Fateci caso: stanno spuntando come funghi locali che fanno la formula del prezzo fisso e mangi quanto vuoi, che è l’esatta antitesi di quello che dovrebbe essere, ossia cibo di qualità ed in porzioni giuste, anche dal punto di vista nutrizionale.  E invece no, gente che mostra che puoi mangiare 10 burrito con cheddar e pancetta o 20 hamburger con porchetta e cipolle e pecorino fuso e pagare solo 15 euro. Bibita e patatine comprese ovviamente.

Mai che si sappia poi che roba c’è in questi all you can eat, mai nessuno che ti racconti la storia di un prodotto….solo porzioni immonde che colano salse da ogni dove.

E’ la vittoria della forma sulla sostanza, dell’apparenza sulla genuinità, della quantità sulla qualità, della ignoranza sulla cultura, della stupidità sulla avvedutezza. Ma, hanno migliaia di follower, fanno presa sulla massa, che a dirla tutta, non fa distinzioni tra i vari operatori della comunicazione e quindi 1 vale 1, ma la massa è quella che 2mila anni fa di questi tempi, chiamata a scegliere, preferì un noto ladro ed assassino ( Barabba) ad uno che aveva trasformato l’acqua in vino (ma come si fa….) a testimonianza che la folla è incolta e presuntuosa, e quasi sempre priva di ratio nel decidere.

E io inizio a stancarmi. Sono pochissime le penne di food che provo piacere a leggere. Perché mi rendo conto che pochi sanno quello che scrivono.

Capitolo giornalisti. Molti, pure bravi, si sono buttati a fare l’addetto stampa di ristoratori, pizzaioli e produttori, che di per sé non è una cosa negativa quando non si tramuta nell’essere adulatore del “padrone”, anche quando non c’è nulla da esaltare. Per non parlare dei press tour, alcuni organizzati bene, altri con 4-5 colleghi o simil tali (a volte non sono neanche giornalisti), che si limitano a mangiare e a parlare bene, su riviste minori o addirittura solo sulla propria pagina facebook, che spesso ha meno follower di quella del locale stesso.

Mi domando: ma il committente chiede mai conto al suo addetto stampa sulle qualità e il seguito di chi ha portato alla cena, o verifica mai dove sono usciti i resoconti della serata e quante visualizzazioni hanno avuto o si limita a essere felice degli applausi, sicuramenti “spontanei” ricevuti quella sera, a caro prezzo???

Anche perché chi ha un seguito numeroso di follower, chiede soldi per intervenire alle cene e quindi chi va gratis sono spesso neofiti che cercano di ritagliarsi uno spazio. Per carità, anche bravi con la penna, ma con un seguito assai limitato, non avendo testate autorevoli su cui scriverne.

E a me questo fa profonda tristezza e anche rabbia, perché alcuni di loro meriterebbero ben altre piazze su cui raccontare i loro viaggi del gusto, che dei social su cui scrive chiunque. Ma, parimenti, ad un occhio attento non sfugge quando la recensione è solo un tributo all’addetto stampa, perché magari si è mangiato pure male. Vuoi mettere andare in incognito, farti raccontare il cibo da chi pensa tu sia un semplice curioso, e poi scriverne solo se veramente ti è piaciuto? La libertà, di scrivere o meno, non ha prezzo.

Ma, poi, qual è il senso di andare a provare un locale che sa già che vai? Lo capirei solo in casi rari, ad esempio par aiutare un locale valido in difficoltà perché poco conosciuto. E, se poi si mangia male i restanti 364 giorni, Tu giornalista che ne scrivi che figura fai con chi legge le tue impressioni stupefatte da cotanta mangiata in occasione del press tour? Oltretutto nel 90% dei casi non viene detto il prezzo dei piatti, cosa fondamentale per un cliente che volesse andare.

Inoltre, se poi uno degli ospiti, magari quello più scrupoloso, muove qualche legittima critica, ecco che lo chef perde la sua cordialità e si mette sulla difensiva, perché non sia mai riceva una critica e l’addetto stampa ti depenna dalla lista degli invitati ai food press futuri.

In fondo, ha ragione lo chef, ha pagato alcune centinaia di euro per quel press tour e vuole sentire solo complimenti.

Perché pochi chef e pizzaioli vogliono crescere davvero e molti vogliono solo applausi, basta guardare quelli che postano premi da due soldi, facendo credere che chissà quale riconoscimento hanno avuto.

Ricordo a tutti che l’importanza di un premio è data dalla caratura di chi lo elargisce (un premio dato da pincopallo È un premio di pincopallo) ed è inversamente proporzionale a quanti lo hanno ricevuto, ossia, se lo stesso premio lo stesso giorno lo ricevono oltre a te altri 60 che c…o ti vanti???? Ha lo stesso valore delle medaglie di partecipazione che, quando io ero bambino, davano a tutti nelle competizioni sportive, per non far tornare a casa qualche bimbo a mani vuote, ossia Zero Spaccato. E non si può fare di tutta l’erba un fascio, premiare contemporaneamente la pizzeria sotto casa e una con 100 anni di storia, chi ha una carta di 1000 etichette e chi ne ha 10, per accaparrarsi la stima di tutti. I premi implicano sempre delle scelte, ai concorsi soprattutto di pizza, ormai si inventano 100 categorie per “apparare” quasi tutti. Ma per favore….

Ed intanto è spuntato fuori un altro premio (da anni già c’è uno che premia “l’eccellenza” ..) che viene dato “ai migliori ristoranti”, ovviamente, come per quell’altro immagino, dietro lauta elargizione di soldi per una targa che equivale a zero e che già molti mostrano orgogliosi….

Sicuramente c’è molta amarezza nelle mie considerazioni perché invece di andare verso una professionalizzazione del settore, si va sempre più in una direzione commerciale dove contano le visualizzazioni più dei contenuti, i soldi degli sponsor più di quelli dei clienti, e le amicizie giuste più della meritocrazia, gli applausi comprati più delle critiche disinteressate.

Colpa anche degli editori che non credono in una stampa specializzata qualificata, infatti le riviste di food serie sono praticamente scomparse e quindi anche bravissimi giornalisti di settore devono riciclarsi in qualche modo per andare avanti.

E’ colpa del fatto che tutti si sono buttati a scrivere di cibo, alla ricerca di facili guadagni. Venti anni fa in Campania c’erano due penne di riferimento per i ristoranti e due per i vini, e basta. Giornalisti professionisti, stipendiati dai loro quotidiani, due per il Mattino e due per il Corriere del Mezzogiorno. E una loro recensione positiva muoveva tanti appassionati. Oggi è una giungla, con decine di “esperti” che danno consigli, senza che si sappia chi ha competenze per darli, chi è pagato e quindi sta facendo una pubblicità, e l’utente appassionato non capisce più nulla in questo marasma.

E non vedo margini di miglioramento concreti. Perché quando sembra aprirsi uno spiraglio, ecco di nuovo che il sistema affossa chi cerca di essere professionale. Perché la professionalità e l’onestà intellettuale spaventa. In tutti i campi.

E ce ne vuole tanta, pure per scrivere di una semplice pizza o di una bistecca.

Unica soluzione? Servirebbe una presa di posizione chiara da parte degli operatori della comunicazione seri, che dovrebbero fare massa critica ed opporsi a questo dilettantismo imperante, alzare la testa e far sentire la loro voce, invece di restare arroccati su posizioni, a volte un pò snob, che li isolano senza benefici per l’informazione affidabile di settore.

Solo così avverrebbe una svolta.

Imparare a parlare un linguaggio semplice e diretto, scendere nelle piazze, sia fisiche che social, e dire come stanno le cose, che il prosciutto buono è quello grasso, spiegando il perché, che la mozzarella di bufala va mangiata al naturale e senza una crema di pistacchio dentro, che il valore vero di una carne è il gusto e non solo la tenerezza, che frollare una bistecca per due anni non è necessariamente cosa buona, che un barolo di 10 anni può essere migliore di uno di 30, che il vero cheddar, da latte crudo e fatto a mano, neanche sanno dove si produce, che tra olio di oliva ed olio extravergine di oliva c’è un abisso, che le caverne dentro una colomba o un panettone sono difetti, che il 50% del “maiale nero” che vendono i supermercati è un semplice suino di razza duroc e via discorrendo….

E ci vorrebbero sponsor che sostengano una informazione seria e non solo quella, mendace, che però fa numeri. Anche nel vendere ci vorrebbe una etica che oggi francamente non vedo, come non la vedo in chi fa comunicazione.

Vabbè, ora basta. Forse, ad immaginare certe cose, io sogno, e non è vero che sognare non costi nulla….

p.s. per carità di patria, lascio come post scriptum la mia opinione su quelli che fanno video in cui mangiano come un bufalo: Volgarità senza ritegno è strafogarsi davanti ad una telecamera. Volgarità senza ritegno è guardare questi video.

Le gare dei mangioni andavano 40 anni fa nelle fiere di paese, dunque, farle oggi, è progresso o regresso? Di chi le fa e di chi le segue…..e anche di chi le vuole ospitare nel proprio locale. Magari gratis. E poi si risente se il mangione di turno gli chiede 600 euro.

Rischiare la salute sì, ma almeno a pagamento!!!!.

 


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