
di Floriana Barone
“M’poi capì”, “Nun t’accollà”, “Tiè, mettece na pezza” o “N’do cojo cojo”: le pizze di Marco Rufini “parlano” il dialetto romanesco. Il vulcanico chef e pizzaiolo di Gallicano nel Lazio (RM) da qualche tempo ha introdotto nel menu del suo locale le “Pizze in gergo”. Le proposte fisse in carta a Casale Rufini sono sedici e tutte molto interessanti, preparate con ortaggi e salumi delle campagne circostanti, formaggi e guanciale di Amatrice, fior di latte di Agerola e bufala del casertano (12€ ogni pizza).
L’impasto è un mix di farine 0 e 1 con germe di grano vivo di un mulino piemontese a cui Marco aggiunge il lievito di birra liofilizzato (3 gr per ogni chilo di farina): la maturazione è di 72 ore in cella frigorifera e l’idratazione è del 67%.
Rufini ha iniziato a inserire sul menu due-tre proposte in dialetto cinque anni fa, dopo aver ascoltato molti suoi amici romani confrontarsi sui modi di dire più comuni nei diversi quartieri della Capitale. La prima pizza in assoluto è stata “Non è pe’ cattiveria”, che Marco preparava con pomodoro, pomodorini, olive, ciliegine di bufala, origano e basilico.
Le due pagine dedicate alle “Pizze in gergo” sono approdate a Casale Rufini nel 2018: i clienti amano moltissimo la “Da paura ao…” con valeriana, capocollo, fonduta di gorgonzola dolce e noci”, la “Se po fa, avoja” con pancetta artigianale arrotolata, crema di zucca bio e stracchinata dei Castelli Romani e la famosa “M’poi capì”, con mortadella Igp, crema di pistacchio e bufala, che rimane la pizza più richiesta a Casale Rufini.
E ogni settimana c’è sempre una nuova proposta in lavagna, rigorosamente stagionale, come la “Nun t’accolà” con carciofi, guanciale, pecorino e fior di latte, che rimarrà fissa fuori menu fino a metà maggio.
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