Alla Guida Michelin non piacciono le donne italiane e i cuochi 2.0

Pubblicato in: Polemiche e punti di vista
omino Michelin

di Catia Sulpizi*

Per la prima volta c’è un cambio di sede per la presentazione della guida Michelin, non più Milano, bensì Parma. E Parma (già città creativa della gastronomia per l’Unesco) non si fa trovare impreparata, anzi ben risponde alla chiamata aprendo le porte di un luogo d’eccezione, il Teatro Regio.

Ogni anno ci si interroga se questa “Rossa” stia perdendo il suo fascino. 62 edizioni e non sentirle affatto potrebbe essere una prima lettura generale. Innegabili, sono i punti di forza che rendono tale guida, ieri come oggi, il riferimento assoluto in termini di autorevolezza; il codice deontologico degli ispettori che prevede anonimato, professionalità e soprattutto il pagamento del conto a fine pasto; la potenza di indotto di clientela tale da variare i fatturati. Ma Michelin vuol dire principalmente “stelle” e quelle che decidono di far brillare e ancor più quelle che decidono di non far brillare, raccontano una mancanza di freschezza di valutazione.

La scelta di non premiare giovani come Riccardo Camanini, Eugenio Boer, Gianluca Gorini o Paolo Lopriore (chef dai talenti più che riconosciuti dalla critica enogastronomica) evidenzia una guida che fa difficoltà a relazionarsi con cucine innovative, audaci, dirompenti a tratti estreme e che al contrario trova piacere in cucine rassicuranti dalla mano morbida. Il che stupisce ancor più notando che dieci dei neo-stellati hanno meno di 35 anni e la scelta di introdurre il premio “Giovane Chef Michelin” (quest’anno assegnato a Federico Gallo del Locanda del Pilone). Anno dopo anno il dubbio si rivela certezza: per piacere alla Rossa puoi essere un cuoco italiano, ma devi somigliare a un francese.

Stanco e poco chiaro resta il sistema di attribuzione delle stelle che in teoria premia le cucine, ma nella pratica sposa strutture dove sala, cantina e location hanno un alto valore. Una casistica e una statistica che, anche questo caso anno dopo anno, gioca sempre meno a favore di quanto da loro asserito.

La stella insomma è del ristorante o dello chef? Oltre la rivendicazione di appartenenza c’è un fattore economico di non poco conto: la stella costa soldi. Soldi per averla, soldi per mantenerla (seppur poi ci sia un ritorno di clientela, almeno all’inizio). Ora sapere in che direzione spenderli e dove non sprecarli credo che per il ristoratore sia cosa gradita. Gli ispettori che valutano solo la cucina sono gli stessi che storcono il naso se non hai la tovaglia lunga bianca di lino stirata? Gli ispettori che valutano solo la cucina sono gli stessi che storcono il naso se non hai il direttore, il maître, il sommelier , lo chef de rang e tutti rigorosamente in giacca? Gli ispettori che valutano la cucina sono gli stessi che storcono il naso se il fioraio non diventa parte integrante del locale? Personalmente, a fronte dell’impegno speso e soprattutto preteso, trovo obsoleto e offensivo continuare a premiare solo le cucine. Possibile che non si riesca a trovare un simbolo all’interno del firmamento, per premiare una sala meritevole? Detto questo, annata generosa per il cielo italiano che si conferma secondo, solo a quello francese. Il popolo romano è quello che più guadagna in termini di quantità seppur le scelte effettuate lascino perplessi platea e critica. Le donne sono totalmente escluse da questa edizione, nessuna nuova presenza femminile sul palco. Bocca asciutta per chi si aspettava la prima stella della storia ad una pizzeria: fortunatamente il popolo rimane l’unico giudice di questo meraviglioso prodotto.
*pubblicato su www.secoloditalia.it

 


Dai un'occhiata anche a:

Exit mobile version