I sapori della mia infanzia a San Giovanni a Teduccio

Pubblicato in: Album

di Marina Alaimo

Desideravo da tempo, troppo tempo, rivedere la mia vecchia scuola elementare, e siccome mi rincorreva nei sogni da diversi mesi, mi sono decisa ad andare a cercarla.  E’ un istituito di suore, il Caterina Volpicelli, la difficoltà però stava nel recarmi nel mio quartiere di origine, San Giovanni a Teduccio,  un quartiere difficile di Napoli che rifiuto ormai di percorrere, forse perché mi vergogno di esserci nata. Oggi è molto diverso, più brutto che mai, ha perso totalmente la sua identità che ho ricercato nei miei ricordi, affiorati vorticosamente uno dopo l’altro in maniera quasi soffocante, a tratti piacevoli, a tratti crudeli. Varcata la soglia del grande portone che introduce alla vecchia scuola, tenuta ancora molto bene, l’odore della cucina delle suore ha acceso con vigore i ricordi, sanno di buono, di pulito, di grida gioiose negli ampi spazi dedicati alla ricreazione, di amaro per le severe punizioni che impartivano, orecchie d’asino e faccia al muro sono state un’umiliazione che ho vissuto e mai più dimenticato.


Ho risentito il profumo della pasta e patate, della pasta e lenticchie, del sugo da mettere sui maccheroni, sempre scotti,  preparato con amore dalla suora che si dedicava alla cucina, grassa e buonissima, la suora,  aveva sempre una carezza ed un sorriso  per tutti e se veniva giù qualche silenzioso lacrimone, perché la voglia di rientrare a casa era ormai insostenibile, tirava fuori da una delle tante tasche qualche caramella consolatoria, alla menta o all’orzo. Uscendo dalla scuola mi sono decisa a rifare il percorso che andava da casa all’istituto, ed i ricordi sono stati indotti soprattutto dalle soste che facevo lungo la strada per comprare qualcosa da mangiucchiare.  Ecco o’ vasc’ e Carmilina (il basso di Carmela): era scuro, povero e sporco, ma sulla porta di entrata che dava direttamente sulla strada, su un piccolo banco di legno erano esposte caramelle e dolciumi di tutti i tipi, insieme a pochi e coloratissimi giocattoli. Lei era una vecchietta dai folti capelli bianchi, sempre sola, con occhiali spessi e tanta voglia di chiacchierare per ammazzare la solitudine. Carmilina buon giorno, io voglio 200 lire di ciù ciù, le caramelle gommose colorate ricoperte di zucchero che si appiccicavano sempre ai denti, ma buonissime, poi qualche bastoncino di liquirizia, due cremini, ed un bastoncino di zucchero colorato. E così masticavo per un bel po’ quelle delizie,  causa frquente di fastidiose carie per i bambini del quartiere. Nell’angolo più avanti, all’uscita della scuola, non mancava mai l’apetta di Ermenegildo, una sorta di friggitoria ambulante che raramente si riesce ancora a vedere in giro per i quartieri di Napoli, quelli popolari ovviamente, negli altri costituiscono ormai un elemento di disturbo. Invece era un’espressione divertentissima del cibo da strada napoletano, sempre seguito da un grido di richiamo che noi bambini rincorrevamo per consolarci dalle lunghe ore seduti ai banchi di scuola.

 


Zeppole, panzarotti, scagnozzi, frittatine di maccheroni, pall’ ‘e ris’, pizza fritta ripiena di ricotta e cicoli,  comprati con poche lire e divorati nonostante fossero bollenti, di nascosto di mia madre che me lo vietava categoricamente perché diceva che quella frittura fosse poco affidabile.

Procedendo oltre, rivedo ‘o vasc’ e Juanninella, personaggio singolarissimo, viveva nella miseria più nera, anche lui viveva solo, era gay, ma in questo quartiere si diceva femminiello, era un pezzo di omone forzuto,  si truccava gli occhi con ombretto celeste o verde, come andava di moda negli anni ’70. Juanninnella spingeva un grosso carretto che si era costruito da solo, dotato di un fischio a vapore che faceva suonare di continuo per avvisare la gente del quartiere che era arrivato con il suo carico variopinto di “spassatiemp”. Chi non è napoletano non può sapere di cosa si tratti, è un insieme di frutta secca, ceci tostati, noccioline, semi di zucca, lupini gialli, castagne del prete, che la gente del popolo amava sgranellare e sgranocchiare a fine pasto, soprattutto la domenica, per allungare oltremisura la sosta a tavola fatta di chiacchiere accese, canzoni napoletane e numerosi bicchieri di vino, rigorosamente sfuso e acquistato nella bottega “vini e olii”, ben animata e diventata un punto di incontro per le persone del luogo.

 

Al suono del fischio di vapore seguivano numerose calate di panieri legate a lunghe corde che le donne srotolavano velocemente dai loro balconi ordinando a gran voce la quantità e la varietà di spassatiemp’ da mettere a tavola. Circa un chilometro più avanti raggiungo il vicolo della Marina, si perché questo quartiere costeggia il mare e le spiagge vulcaniche sono nere e sempre sporche. Era abitato perlopiù dai contrabbandieri di sigarette, personaggi importanti e rispettati nel quartiere, ma purtroppo anche dalla mia insegnante di pianoforte, Miriam. Mi recavo da lei due volte alla settimana, nel primo pomeriggio, avevo circa otto anni, ero ben vestita venendo da una famiglia agiata, sotto il braccio i miei libri di musica ed in mano il sacchetto con i dolciumi comprati da Carmilina. Ovviamente con quell’aspetto pulito e signorile non ero affatto accettata dai figli dei contrabbandieri, che avevano imparato i miei orari di lezione ed ormai mi aspettavano puntuali al varco. Per prima cosa mi rubavano le caramelle, poi giù una serie di parolacce irripetibile e gestacci estremamente volgari,  minacciando di suonarmele di santa ragione. Per quanto abitassi quel quartiere e fossi alquanto capace di difendermi da sola, anche scendendo alle mani al momento giusto, in quel tratto di strada estremo erano in troppi e non mi rimaneva che farlo a gambe levate sperando che non mi raggiungessero.  Non l’ho mai raccontato ai miei genitori perché, se c’era una cosa che avevo imparato tra quei vicoli, era certamente  di dovermela sbrigare in prima persona, ma dopo due anni di quello strazio,  decisi comunque di abbandonare le lezioni di pianoforte. Poi me ne sono pentita amaramente per tutta la vita. Ho un altro ricordo fortissimo legato ai contrabbandieri del mio quartiere, gli inseguimenti via mare dei loro grossi motoscafi blu da parte delle motovedette della Guardia di Finanza.

Erano piuttosto frequenti ed estremamente spettacolari, sempre diretti dall’alto da un elicottero. Io ed i miei fratelli li osservavamo molto divertiti dal balcone panoramico della nostra casa al settimo piano, avevo anche scelto una colonna sonora che puntualmente mettevo su nel mio mangiadischi arancione, Zum Zum Zum, un vecchio quarantacinque giri di mia madre. Ovviamente facevamo il tifo per i contrabbandieri che percorrevano avanti ed indietro per ore il golfo di Napoli, buttando una ad una a mare le casse di sigarette per cercare di andare più veloce, ma  ,come sempre, una volta finito il carburante, venivano affiancati dalla Finanza e tratti in arresto.  Ecco la pizzeria dei Salvo, quella è ancora  qui, ma è più curata ed accogliente, ci andavo con qualche amica la domenica una volta uscite dalla messa, compravamo una pizza margherita, piegata in quattro ed avvolta nel classico foglio di carta paglia, accompagnata da una bottiglietta di gazzosa gustata fino all’ultima goccia rumorosamente tirata su con la cannuccia.

E poi il bar Pilla, dove i miei genitori mi vietavano severamente di entrare, ma per me il divieto suonava spesso come un irresistibile invito. Lì ci si trovava gente di tutti i tipi, ricordo che siamo in un quartiere caldo, la lingua parlata era rigorosamente il dialetto ed a me piaceva da morire osservare quelle persone così pittoresche e colorite che, pur vivendo le stesse strade e piazze, appartenevano ad un mondo totalmente diverso dal mio.  Non mancavano ovviamente i contrabbandieri che la domenica, secondo canoni molto personali, si vestivano con cura: camicia sbottonata per sfoggiare le loro grosse catene d’oro appese al collo, corredate dall’effige del Volto Santo o del crocifisso, le maniche degli abiti erano tenute su per mostrare i tatuaggi ed erano  pronti ad offrire numerosi caffè all’entrata di tizio o caio, un po’ per mostrarsi generosi, un po’ per ostentare un certo benessere. Io compravo  un gelato alla fragola e limone con il quale puntualmente mi battezzavo il vestito della domenica.


Dai un'occhiata anche a:

Exit mobile version