La cucina italiana? Alberto Grandi è un terrapiattista gastronomico

Pubblicato in: Polemiche e punti di vista

Alberto Grandi e la cucina italiana
Attaccare certezze, miti, persone di successo è la tattica più facile per fasi notare sui social. Poi però c’è il conto da pagare, soprattutto se sei un professore: la tua credibilità. L’ignoranza che ha mostrato sulla pizza e sul parmigiano è davvero sconfortante. Ecco il mio pezzo di oggi sul Mattino.

Conoscete il paradosso di Zenone su Achille e la Tartaruga? In pratica il filosofo eleatico che si faceva i bagni ad Ascea nel Cilento sosteneva che se Achille facesse una gara con una tartaruga partendo con un piede di svantaggio, non riuscirebbe mai a raggiungerla. Questo perché Achille dovrebbe prima coprire il piede, ma nel frattempo la tartaruga sarà avanzata di un po’. E così all’infinito. Un sofisma difficile da confutare sulla teoria ma che appare improponibile nella realtà dei fatti a qualunque essere pensante. Quando Alberto Grandi ha raggiunto la notorietà (non essendoci riuscito con il suo libro “Denominazione di Origine Inventata”) con l’intervista al Financial Time negando l’esistenza di una cucina italiana non ho potuto fare a meno di tornare sui banchi del primo liceo e ricordare il professore che cercava di farci entrare nella testa il paradosso di Zenone.

La cucina italiana prima al mondo per TasteAtlas

Già, perché in realtà contemporaneamente alla negazione di Grandi dell’esistenza della cucina italiana apprendevo dai siti web che la stessa cucina italiana è la prima al mondo sia per le ricette che per i prodotti secondo la classifica delle migliori cucine stilata dal portale inglese TasteAtlas, un’enciclopedia gastronomica digitale che cataloga piatti tradizionali, prodotti enogastronomici locali e ristoranti di tutto il mondo. Facendo una media dei voti espressi dagli utenti che hanno testato i piatti e i locali segnalati nel portale, Taste Atlas ha potuto individuare le cucine più amate a livello mondiale nel 2022. E su 95 nazioni, è stata proprio l’Italia ad aggiudicarsi il primo posto.
A farci guadagnare la vittoria sono stati piatti simbolo della cucina del nostro paese, prima tra tutti la pizza, votata dagli utenti come piatto italiano più popolare con un punteggio di 5 su 5. A seguire troviamo altre ricette storiche come il lombardo risotto alle zafferano, le tagliatelle al ragù alla bolognese e la romana pasta alla carbonara.  Ci sono poi i ravioli, gli gnocchi, il tiramisù, la pizza napoletana e la bruschetta. La top ten si conclude poi con il torrone. Tra i prodotti più conosciuti al mondo troviamo al primo posto gli spaghetti, seguiti dalla mozzarella e dalla lasagna in terza posizione, mentre il titolo di bevanda più popolare va al caffè, seguito da cappuccino e amaro.
Dunque, per capirci, la cucina italiana è percepita come migliore al mondo nel momento in cui un professore italiano ne nega l’esistenza con una serie di cavilli e di sofismi spesso superficiali (il vero parmigiano è del Wisconsin, cit.) se non da ripetente, totalmente sbagliati (la pizza al pomodoro inventata dagli americani).
In questa classifica l’Italia, con un giudizio di 4,72 (su un massimo di 5), è seguita da vicino dalla Grecia che con 4,69 si aggiudica il secondo posto, e da Spagna e Giappone che con 4,59 punti si posizionano ex aequo al terzo posto. Seguono India, Messico, Turchia e Stati Uniti. La Francia, storica rivale italiana in termini di prodotti enogastronomici, si aggiudica solo il nono posto, mentre il decimo è stato assegnato al Perù.

 

Alberto Grandi nega l’evidenza come i terrapiattisti

Insomma un trionfo, che avviene proprio nel momento in cui marchi del made in Italy globali come Gucci, Armani, Bulgari, stanno investendo nella gastronomia mietendo stelle Michelin come mai prima era accaduto.
Anche di fronte a questo sondaggio sarebbe facile replicare che la gente crede in qualcosa che non c’è. Del resto è pur vero che la cucina italiana rappresenta l’Italia nella sua frammentazione regionale, provinciale, comunale, familiare per cui le abitudini alimentari sono profondamente cambiate e sono in continua evoluzione, e sarebbe strano altrimenti visto che sono cambiate la struttura della famiglia, la composizione sociale, le radici geografiche, il fabbisogno calorico. Ma quello che sfugge al professore Grandi è che proprio questa continua trasformazione sociale e antropologica ha provocato la nascita della cucina italiana che è già ben tratteggiata nei tre grandi manuali di ricette dell’800: quelli del Corrado, del Cavalcanti (dove debuttano i vermicelli al pomodoro) e dell’Artusi con la differenza che i primi due conoscevano cosa si mangiava sopra Roma, il secondo esprime sostanzialmente solo la cucina tosco-emiliana perché ignorava assolutamente cosa si mangiasse al Sud. Fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani, e tra due guerre mondiali, l’emigrazione, la televisione, le lotte operaie e studentesche, l’alfabetizzazione, nel corso degli anni l’italiano si è fatto pur mantenendo declinazioni territoriali molto accentuate, a volte teatralmente accentuate.
Figli dell’esperienza comunale e dei regni pre-unitari, il nostro genius loci è sostanzialmente anarcoide, veri eredi della Grecia Antica più che di Roma Imperiale come credeva o voleva far credere la Mussolini

Ma è proprio questa diversità con le sue differenziazioni ad essere l’essenza stessa della cucina italiana come ha ben spiegato il professore Luigi Petrillo che ha redatto il dossier presentato a Parigi per il riconoscimento della cucina italiana come patrimonio immateriale dell’Umanità da parte dell’Unesco, altro atto giudicato una sciocchezza da Alberto Grandi in una successiva intervista al Gusto di Repubblica.
Al di là dei sofismi che spezzettano le tradizioni in origini diverse e lontane, dobbiamo dire che è proprio questa la forza della cucina italiana, essere nata su una pontile lungo mille chilometri nel mare più ricco di storia della Terra, dove ciascun popolo che lo ha attraversato ha versato un pegno di cultura e di abitudini alimentari e proprio queste molteplici identità che sulla carta potrebbero negare la creazione di una sola e specifica identità che sono alla base delle ben identificata, identitaria e radicata cucina italiana. Da un lato la formazione degli italiani, dall’altro la fusione di abitudini da Oriente a Occidente, da Nord a Sud, al centro di quel Mediterraneo che lo stesso Braudel portava sin oltre le Alpi e che a volte si allarga, altre si restringe, in un eterno respiro storico.

In questo processo di formazione siamo l’unica cucina che ha un piatto in più, il Primo Piatto, da non confondersi con il piatto principale di stile anglosassone, a base di cereali (riso, farro ma soprattutto grano, grano duro) e che ha alla base l’olio d’oliva, come acidificanti naturali il pomodoro e il limone. E non serve dire che il primo viene dall’America e il secondo fu portato dagli arabi per negarne l’italianità nell’uso.
Proprio in questi anni insomma si è creato un vero e proprio menu all’Italiana, dalla parmigiana di melanzane alle paste secche (pomodoro, carbonara, cacio e pepe) e fresche (ravioli, lasagne), il risotto (più nell’alta ristorazione), la pizza, il tiramisù, il panettone, il gelato, il caffè, la mozzarella, il limoncello. Nessun altro paese occidentale può vantare questa varietà. E’ proprio nella continua contaminazione che si forma una identità, perché, come si sa, la tradizione è una innovazione ben riuscita. Qui parliamo della Dieta Mediterranea codificata in Cilento dal professore americano Ancel Keys, affascinato dalle abitudini alimentare di Napoli e del Sud che mantenne a sua vota tutta la vita lontano dai grassi idrogenati, dai coloranti, dai dolcificanti, dai conservanti propri della dieta anglosassone. Patrimonio Unesco studiato, qui si scientificamente, dai professori Marino Niola ed Elisabetta Moro.
L’espansione dello stile mediterraneo si sta accentuando nel mondo perché la cucina italiana ne è una articolazione moderna, saporita, allegra, vive nelle trattorie e in parte ancora nelle case, è essa stessa un patrimonio identitario evidente a tutti. Qualsiasi cuoco italiano che lavora all’estero lo sa bene.
Allora mi chiedo, perché negare l’evidenza?


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