La pasta imbottita, l’altra faccia della lasagna

Pubblicato in: La stanza di Carmen
Pasta imbottita - monoporzione

di Carmen Autuori

Goethe diceva che il Carnevale non è la festa che si offriva al popolo, ma una festa che il popolo offriva a se stesso. E proprio in occasione della festa più sregolata dell’ anno il mondo si rovesciava: il servo diventava padrone, il padrone servo ed entrambi, per una volta sullo stesso piano, sbeffeggiavano l’autorità.

Goethe si riferisce però soprattutto al carnevale romano, cosa ben diversa è il carnevale napoletano che, oltre ad essere una festa antichissima, assume caratteri suoi, in quanto sin dal 1600  si è sempre caratterizzata come la festa che i vicerè prima ed i Borbone poi offrivano al popolo, parliamo del Carnevale cosiddetto spagnolo,  un vero e proprio modello carnascialesco famoso nel mondo, tanto da diventare meta ambitissima di nobili e ricchi viaggiatori stranieri. In questa fase i tratti tipicamente popolari e le istanze nobiliari trovarono un punto d’incontro a cominciare dal luogo, piazza del Carmine. Fu qui che per la prima volta si videro sfilare i carri pieni cibo che venivano assaltati dalla plebe sotto gli occhi divertiti degli aristocratici accomodati su sontuosi palchi appositamente costruiti.

Per motivi di ordine pubblico, dopo i noti fatti della rivolta di Masaniello nel 1647, i carri furono fatti sfilare lungo via Toledo il cui naturale sbocco, Largo di Palazzo, ben si prestava ad essere controllato in quelli che diventarono veri e propri momenti di follia collettiva essendo tra l’altro confinante con le caserme di Pizzofalcone. Ma l’aristocrazia spagnola sempre meno ricca non poteva più affrontare spese così ingenti per il divertimento del popolino, così l’allestimento dei carri fu dato in appalto a fornai, macellai, tarallari, maccheronari, pizzicagnoli, ortolani e così via.

Con il nuovo secolo, il XVIII, i carri diventarono fissi e si tramutarono in Cuccagne, riprendendo il mito del Paese di Bengodi, diffusissimo dal Medievo fino all’Ottocento inoltrato. Erano una sorta di impalcatura addobbata con ogni ben di Dio: oche, polli, tacchini, pagnotte, baccalà, e salcicce a gogò perché è sempre la carne la vera bramosia delle classi più povere. La plebe afferrava il cibo, lo ingurgitava, si riempiva la pancia fino a scoppiare perché almeno una volta all’anno voleva dimenticare il senso di vuoto gastrico perenne, sognando un mondo che capovolgesse la realtà facendola diventare ricca e abbondante.

Nell’Ottocento la festa cambiò: la borghesia che ormai si era affermata non aveva bisogno più di alcun consenso, anzi considerando il Carnevale una festa troppo licenziosa, lo sostituì con le pesche di beneficenza o con feste mascherate che si tenevano nelle sale da ballo dei nuovi ricchi. La migliore e ultima descrizione del Carnevale popolare ce la regala la penna di Matilde Serao. Attraverso le sue parole, scorgiamo non solo le maschere, ma anche tutte le sfumature dell’animo di chi attendeva l’arrivo dei carri, il divertimento sfrenato, ma anche la tristezza della morte di Carnevale che dava inizio ad un altro lungo anno di stenti.

La tradizione popolare con il suo corredo di carri allegorici, sfilate, frizzi e lazzi ha resistito solo nelle zone più interne sia della provincia napoletana che in quella irpina o nelle zone costiere, basti pensare al Carnevale atellano, a quello di Montemarano o di Maiori per citarne alcuni.

Ad ogni buon conto la festa che trae origine dai Saturnalia quando tutti indossavano delle maschere per evitare che si riconoscessero i protagonisti di cotanti eccessi, non esiste più se non a tavola. E’ questo, infatti,  l’ultimo giorno utile a soddisfare i desideri, soprattutto quelli della gola, prima dei rigori imposti dalla Quaresima.

Il pranzo del Martedì grasso, ma anche quelli della settimana precedente a dire il vero, sono un vero e proprio inno all’abbondanza che, coincidendo con il periodo in cui si macella il maiale, sposa ghiottonerie suine d’ogni genere. Via libera, dunque, al consumo di sanguinaccio, di salumi, di rustici arricchiti da grasso di maiale, da migliacci sia dolci che salati,  ma il piatto che non può mancare è sicuramente la lasagna.

Essa è piatto tipico, come tutti sappiamo, dell’area partenopea, mentre nelle zone interne è altrettanto diffusa l’altra faccia della lasagna, la pasta imbottita, di cui è protagonista lo zitone, una delle trafile campane più antiche, storicamente presente nei banchetti  importanti, quelli che segnano i momenti salienti della vita come ad esempio il banchetto nuziale da cui trae il nome, infatti la sposa nel nostro dialetto è la “zita”.

Questa pietanza ricorda l’aristocratico timballo di maccheroni, pur essendone una versione più semplice ma altrettanto saporita. Contiene al suo interno ogni ben di Dio: la pasta imprigiona il ragù fatto a regola d’arte esclusivamente con carne di suino, oltre ai formaggi , alle minuscole polpettine, al salame,  all’uovo sodo che rappresenta la vita che si rinnova con la primavera ormai imminente.

Il condimento deve essere abbondante, il sapore della carne deve prevalere perché, almeno una volta all’anno, dobbiamo dimenticare la fame che ha assillato il popolo meridionale da sempre. Ed ora che, almeno per noi, la fame è solo un ricordo, per un giorno abbandoniamoci ai piaceri di questo gustosissimo piatto trascurando tutte le diete.

Ingredienti per 10 persone

500 g di zitoni oppure altra pasta grossa

200 g di fiordilatte

200 g di scamorza

200 g di salame tipo “Napoli “a pezzettini

2 uova sode + 2 uova intere

100 g di parmigiano

Sale

Pepe

Per il ragù

700 g di carne di maiale mista (costine, capicollo gamboncello)

1 cipolla media

2 litri circa di passata di pomodoro

½ bicchiere di vino rosso

Sale

Pepe

Per le polpettine

350 g di macinato di maiale

200 g di mollica di pane raffermo

2 uova

2 cucchiai di parmigiano

Sale

Pepe

Olio per friggere

Per il ragù

Far appassire dolcemente la cipolla tagliata a velo nell’ olio evo. Rosolarvi la carne a pezzi, sfumare con mezzo bicchiere di vino rosso, aggiungervi la passata di pomodoro e far cuocere molto lentamente per circa tre ore. A fine cotture sollevare la carne dal sugo e tenere da parte.

Per le polpettine

Preparare le polpettine con tutti gli ingredienti , friggerle in olio di semi e tenere da parte. Le polpettine devono avere la grandezza di una nocciola.

Spezzare gli zitoni in 4 parti e lessarli molto al dente in abbondante acqua salata, scolarli e condirli con parte del ragù. Imburrare una teglia dai bordi alti, versarvi  metà della pasta, farcire con il fiordilatte e la provola tagliata in piccolissimi pezzi, aggiungervi il salame, l’uovo sodo tagliato a dadini, le polpettine, 50 g di parmigiano grattugiato, condire con un paio di mestoli di ragù. Ricoprire il tutto con la restante pasta, cospargervi il restante parmigiano e terminare con il resto del ragù. Sbattere leggermente le uova con un pizzico di sale e pepe, versarle a filo sulla pasta. Infornare a 200° per circa 30 minuti. Far asciugare la pasta a forno spento con lo sportello semiaperto per altri 30 minuti prima di servire.

 


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