Le tribolazioni di un ciclista gourmet

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

Solo le barche a vela procedono contro vento, certamente non un uomo in bicicletta. Perlomeno è difficile. C’è vento oggi, le raffiche spostano manubrio a sinistra e cuore a destra e quando sbatto contro il muro d’aria gelida, faccio una fatica boia. Sdrumo sulle pedivelle, fanculo lo stile. Ma metto il naso di bolina, gli occhi pieni di lacrime ghiacciate, e vado avanti.

Mi è sempre piaciuto il ciclismo. Sono della generazione dei “tappini”: tappi di bibite, aranciate, chinotti, gassose, bitter e lemonsoda, scelti tra quelli meno deformati e ben levigati sul fondo, imbottiti di mollica, pongo, o addirittura cera per stabilizzarli e renderli più veloci sui percorsi tracciati col gesso sul marciapiede. Su misura e ben calcato, un cerchietto di carta, fatto con certosina pazienza, riproduceva accuratamente le magliette dei corridori, La Molteni (arancio e nero per Motta e Dancelli), la Salvarani (celeste-rosso-nero di Gimondi, forse di Pambianco), la Faema (bianco e un triangolo rosso), Peugeot (bianca con striscia a scacchi neri, la maglia del povero Simpson sul Ventoux, di Poulidor, forse di Pingeon) e chissà quante altre, maglia rosa e maglia gialla comprese.

Corridori e colori persi nel tempo, le date si confondono: non saprei dire se li rammento più per le loro imprese o perchè immortalati sui tappini intorno alla metà degli anni sessanta. Altig con il tappino iridato da campione del mondo, il belga Van Looy, lo spezzino, eroico, Graziano Battistini, De Filippis, Adorni, Balmamion, il gregario Imerio Massignan, maglia verde-nero, di quelle di lana, con la scritta Legnano. La televisione in bianco e nero non mandava nemmeno Carosello, se Maspes piazzava un surplace, eterno, sui legni del Vigorelli. Poi venne Merckx, il cannibale, e si mangiò tappini e infanzia.

Da suiveur ho patito, entusiasta, per Moser, sul pavé squassante della foresta di Aremberg e per Bugno, sui tornanti dell’Alpe d’Huez: il cuore strangugliò, gonfio e sdilinquito, per “Pantadattilo” Pantani (cit.) che, alla fine, si portò via tutto, compreso se stesso.

Gianni Brera diceva che il ciclismo è uno sport “sconciante”, il Pirata scattava in salita per abbreviare un’ insopportabile sofferenza: non avrei mai pensato di salire in bici a srotolare chilometri. Invece pedalo e di chilometri ne metto in fila tremila all’anno: sono biologo, sommelier e biciclettista, sono vino biodinamico. Vino che spesso mi lascia perplesso, e certamente son poco attendibile anche come ciclista, lontano dalle fissazioni amatoriali e forse molto vicino ad un uomo qualunque, modestamente in tutina colorata (cit.): ma sto giù, sedile alto, manubrio avanti e pedalo. Per mangiare.

Mangio sempre, prima durante e dopo. Lo dicevo che son poco attendibile. Ma salire in bici a stomaco vuoto mi disturba i pensieri, mi deconcentra. Non ho particolare bisogno di bruciare le riserve di grasso, anzi non voglio proprio andare in riserva. Perciò al sabato mattina una tazzona di latte freddo con corn flakes, riso, frutti rossi, prugne, biscotti integrali, marmellata e un caffè dopante, mentre a pranzo, per le uscite del primo pomeriggio, pasta all’olio o al pomodoro, oppure bresaola, sempre frutta, abbondante, e acqua. Sono abituato così, anche se può capitare che un amico ti telefoni alle due per uscire e tu, che non avevi in programma la bici, hai mangiato carne alla pizzaiola, o pasta al pesto: se poi quell’amico va solo in salita, è molto probabile che dopo tre quarti d’ora di ascesa una certa pesantezza si possa avvertire, ma poi passa. Per fortuna prima della discesa diaccia.

Se qualche ciclista con la “c” maiuscola ha ancora un briciolo di fiducia, vorrei subito spazzarla via con qualche osservazione sul cibo durante la corsa. Niente di che, ma qui entrano in gioco le fighettissime barrette. Costano una tombola, di solito sono maltodestrine o zuccheri semplici di immediato utilizzo: le porto dietro come la coperta di Linus, una barretta mi copre un paio di uscite. Aromatizzazioni cacao e frutta son le preferite, non mi piacciono quelle al latte, evito le eccessivamente pralinate, c’è già da sputacchiare abbastanza. L’esigenza sottaciuta e inconscia di esser ricompensati di tanta abnegazione, può portare all’ingurgitare qualsiasi schifezza, ma vade retro agli allappanti snack tipo Mars che fanno l’effetto mappazza della carne alla pizzaiola, più mettersi di traverso nelle arterie con qualche grasso idrogenato. Ma non c’è periodo migliore di quello natalizio: allora è facile uscire con un torroncino morbido in tasca, oppure un pezzetto di nocciolato, per non dire, poi, la scoperta di quest’anno: i fichi secchi ricoperti di cioccolato fondente. Una vera bomba, tanto che mentre pedali conti i chilometri per arrivare finalmente a meritarti un ricostituente: è un bell’andare, soprattutto dopo, ché ci vuol niente ad alzarsi sui pedali e, come diceva Adriano De Zan, proseguire ciondolando con l’andatura del grimpeur, en danseuse. Narcisismi.

Il dopo è semplice: non sembrerebbe, ma devo tornare al lavoro. Può bastare, a scelta, una banana, una fetta di dolce, un triangolo di crostata e acqua, addizionata di sali minerali in estate.

Più complesso è il sabato, ché c’è tempo per mangiare con calma. Di solito durante l’allenamento penso a un primo di pasta da fare velocemente: pasta al pesto di zucchine, testaroli al pesto, linguine aglio olio e peperoncino, penne mozzarella capperi e pomodori, pasta patate pomodorini e mandorle, spaghetti prosciutto fichi e pistacchi, carbonara o cose simili purché di morso, da addentare con soddisfazione. Spesso pedalo con maggior disinvoltura sapendo che è già pronta una lasagna al forno, un rotolo ripieno al sugo, una torta di riso salata o quanto di assolutamente più complesso madri e suocere premurose han gentilemente pensato di farci assaggiare. Anche queste , in fondo, son soddisfazioni.

Il vento viene da terra e mi infilza di lato tra un isolato e l’altro. Sulla strada che da Lerici porta in centro città, schiumo le ultime energie rasentando i moli dei container: le lacrime non mi impediscono di volare sui tombini, una innata imperizia acrobatica, subito dopo, mi scombussola le budella sulle sempre più colpevoli buche che gruvierano strade cittadine abbandonate e martoriate.. Laggiù vedo i giardini a mare, quasi casa .

Oggi ho pensato poco: in fondo alle solite elucubrazioni cerebrali c’era soltanto un fumante piatto di pappardelle al sugo di cinghiale e un bicchiere di barbera. Volo, pedalando nell’olio, senza sentire la catena.


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