L’Europeo, la Mattozzi Story e il racconto di una leggenda vivente della ristorazione napoletana: Alfonso Mattozzi

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Mattozzi - La famiglia ed i collaboratori

di Carmen Autuori

Se decidete di fermarvi all’Europeo, storico ristorante di via Marchese Campodisola, a Napoli, non vi aspettate, secondo la moda corrente, lo storytelling ad ogni singola portata: qui a parlare sono i piatti stessi. La sontuosa treccia di fior di latte vi racconterà dei Monti Lattari, le cozze si “rilassano”, ma solo nei mesi estivi, prima d’incontrare la pasta e dare il meglio di sé e l’impasto della pizza dorme il sonno dei giusti, dopo essere stato lungamente “accarezzato”, prima di diventare il cibo più conosciuto al mondo.

La narrazione, invece, è affidata alla voce del colto patron Alfonso Mattozzi , istrionico e a tratti affabulatore, che vi prende per mano e vi accompagna nella sua Napoli. Vi guiderà in quello che è stato fino a qualche anno fa il cuore economico della città, infatti il palazzo della Camera di Commercio s’intravede dalla vetrina, nelle stanze che trasudano la cultura della Federico II, vi racconterà dei grandi studi legali di Corso Umberto che hanno prodotto principi del foro e ben tre presidenti della Repubblica, Enrico De Nicola, Giovanni Leone e Giorgio Napolitano, tutti habituè del suo ristorante, ma anche dei fondaci a ridosso del porto dove schiere di uomini e donne esercitavano l’attività di approvvigionamento dei bastimenti che partivano “pe’ terre assajeluntane”.

Insomma Mattozzi a Campodisola, come viene chiamato ancora oggi dai napoletani veraci, racconta attraverso i piatti la storia e le storie di questa città.

La storia della famiglia Mattozzi

Ma facciamo un passo indietro. L’avventura gastronomica dei Mattozzi , famiglia numerosissima, inizia nel 1852 con il trisavolo Luigi che ottiene la concessione ‘per focacce’. E’ lui a dare l’imprimatur del food ai familiari che fino ad allora erano stati ottonari, cioè venditori di metalli. Dai suoi due matrimoni nascono ben 17 figli. Cosicchè nei primi del Novecento, gli anni della Bella Epoque ma anche quelli dell’emigrazione verso le Americhe, spuntano in città numerosi pizzerie che in seguito cominceranno a servire anche altro. Si chiameranno tutte Mattozzi, per distinguerle si dovrà fare riferimento alla zona in cui sono ubicate, a Chiaia, ai Filangieri, a piazza Carità, al Vomero, per citarne alcune.

“I primi anni del Novecento sono stati decisivi per la storia della ristorazione napoletana – comincia così l’appassionante racconto di Alfonso Mattozzi-, si assiste al passaggio del cibo da strada a quello della ‘colazione alla forchetta’. In altri termini una buona parte del popolo potrà permettersi di consumare un pasto, sia esso un piatto di pasta o una semplice pizza, seduto a tavola. Questo passaggio ha delle forti connotazioni antropologiche, sociali e anche politiche. Grazie alle attività portuali particolarmente fiorenti per il grande numero di emigranti che raggiungevano l’America, sorsero proprio in questa zona molti esercizi legati alla preparazione degli alimenti che dovevano soddisfare i bisogni dei viaggiatori e dell’equipaggio. Non esistevano i frigoriferi, per cui i cibi freschi venivano consegnati ai ‘nevajuoli’, i responsabili del servizio di sottoghiaccio presenti su ogni nave in partenza, mentre le carni ed il pesce erano conservate sotto sale. E’ di quegli anni la nascita dell’Italsider a Bagnoli, il posto fisso per molti non è più solo un sogno. Insomma anche il socialismo, a Napoli, comincia a tavola. Poi c’erano gli intellettuali dell’epoca, Matilde Serao che insieme a Scarfoglio, ai Ricordi e a tanti altri erano soliti mangiare ‘na cusarella addù Mattozzi, ma quello del salotto buono di piazza Carità”.

Negli anni del ventennio è nonno Alfonso a reggere le fila del locale in via Campodisola. E’ il tempo della grande illusione colonialista, l’Italia è considerata una potenza, andare al ristorante è ormai quasi un’abitudine per quella borghesia che però si ritrova, anche a tavola, con il popolino e ne condivide abitudini e gusti. E poi cominciano ad arrivare le rimesse degli emigrati, insomma una parvenza di benessere pervade la città. Nel frattempo Eugenio, papà di Alfonso, come d’altra parte tutti i giovani Mazzotti, è diventato ragazzo di bottega.

“Gli anni d’oro del Ventennio vengono interrotti bruscamente dalla guerra e mio padre si trovò, come tutti, a dover fare i conti con il razionamento a cominciare dal pane – prosegue Mattozzi-. La carne diventò un vero e proprio miraggio perché serviva a nutrire l’esercito. Ma noi qui abbiamo sempre avuto l’asso nella manica: il quinto quarto. Cuffia, centopelli, matrice, fegato, polmone, cuore elementi imprescindibili della zuppa forte, il cervello fritto che insieme al midollo costituivano un piatto da re. I merciaiuoli (venditori d’interiora) in quegli anni costruirono la propria fortuna. E penso ai Fiorenzano nella Pignasecca. E poi le zuppe, le verdure che non sono mai mancate perché Napoli a differenza delle altre città metropolitane ha mantenuto sempre forti i legami con le campagne vesuviane, anche in quel periodo, sotto i bombardamenti”.

Con gli americani arrivano le Am-lire, il contrabbando è quanto mai fiorente e così anche al ristorante torna, attraverso questo canale, la pasta, il caffè, lo zucchero e pure un poco di carne.

Secondo don Alfonso gli anni Cinquanta, invece, sono caratterizzati da una sorta di “cannibalismo” a tavola. Questa voracità serviva ad esorcizzare i morsi della fame che, pur essendo un leit motiv della storia partenopea, si erano acuiti proprio per le privazioni della guerra. Gli avventori del ristorante Mattozzi sono famelici, vogliono mangiare soprattutto carbidrati. Don Eugenio sforna enormi lasagne, zuppiere stracolme di zitoni al ragù o alla genovese, pasta e patate, pasta e piselli, mastodontici sartù, e poi carne in tutte le salse per soddisfare una clientela che diventa sempre più fidelizzata perché sa che da Mattozzi la materia prima è sempre di qualità eccellente, a cominciare dalla frutta.

Cosa si mangia a Ristorante l’Europeo

 

“In principio fu la frutta. Se devo dire da dove ha inizio il mio grande amore per il cibo penso ai prodotti della nostra Campania felice – ci narra Alfonso con lo sguardo che tradisce un po’ di nostalgia -. La frutta ha una grande prerogativa, affina i palati perché è un elemento dal sapore quasi liquido, privo di grassi. Io sono stato sempre molto esigente a tavola e i miei, da bambino mi chiamavano ‘o lione. Arriviamo ai favolosi anni Sessanta. Il 1961 è una data storica per questo luogo, mio padre che fino ad allora era stato affiancato dal padre diventa il conduttore, ma anche il condottiero, del ristorante e ne cambia il nome: nasce, così L’Europeo.

Oggi sembrerebbe un nome scontato, per mio padre invece non fu così. Doveva ricordare gli antichi fasti di Napoli capitale e rappresentare le grandi aspettative di don Eugenio, europeista convinto. Inoltre questa azione fu anche dettata dalla volontà di differenziarsi dagli altri Mattozzi perché papà oltre ad essere un ottimo ristoratore era anche un intellettuale un po’ snob”.

Nel frattempo Alfonso, che già da tempo lavorava durante il periodo estivo nell’attività di famiglia, terminati gli studi liceali si trova davanti ad un bivio: proseguire con gli studi universitari o lasciarsi ammagliare, ed ammaliare, dal mondo della ristorazione. Cede alla seconda ipotesi, perché il lavoro in quegli anni era conditio sine qua non per l’emancipazione dai vincoli alla propria libertà posti soprattutto dalla famiglia. Erano gli anni del boom economico, la clientela dell’ Europeo diventava sempre più scelta. Giovanni Leone si fermava spesso a pranzo e a cena con il suo seguito di granatieri, importantissimi accordi finanziari cominciati la mattina a Piazza Borsa si concludevano a tavola. E Alfonso assorbe come una spugna, dal padre, come ci si comporta in sala e come si sta al mondo. Sono questi gli anni in cui impara a non tradire mai le aspettative della clientela e di avere rispetto dell’intelligenza altrui. In sostanza comprende che fare i furbi non paga mai, soprattutto in questo settore.

Nel 1974 il colera è un vero e proprio tsunami che travolge il mondo della ristorazione. Il pesce è visto come il Demonio e di conseguenza i pescatori sono gli untori. Scompare l’ostricaro sia dalla strada che dai ristoranti, guai a parlare di frutti di mare, e con lui molti collaboratori dei Mattozzi considerati da sempre parte integrante del nucleo familiare.

Il ristorante è deserto. Papà Eugenio torna in cucina e Alfonsino (così viene chiamato dai clienti abituali) prende in mano le redini della sala e diventa il punto di riferimento di questo luogo storico. Lo è ancora oggi.

“Se si vuole comprendere la storia di un popolo bisogna osservarne i comportamenti a tavola – afferma convintamente – ogni epoca storica si caratterizza anche per il tipo di cucina. Si pensi a quella dei monzù che doveva mostrare l’opulenza della dispensa oppure la cucina degli anni Ottanta incentrata sull’edonismo reganiano. Noi non abbiamo mai seguito le mode. La nostra è una cucina ‘spartana’ dove le regole le detta la materia prima che è fortemente legata alla stagionalità e ai nostri presidi di eccellenze. Per quanto riguarda i vini, invece, il settanta per cento delle etichette sono campane.

Non è esclusivamente cucina di mare o, viceversa, di terra; diciamo che è un abito sartoriale cucito secondo le esigenze del cliente. Il pubblico è il pilota. La nostra attuale clientela è costituita soprattutto da uomini d’affari, professionisti, professori della vicina università. E allora una colazione di lavoro non può prevedere cibi pesanti, sebbene succulenti. In questi casi la domanda (e di conseguenza l’offerta) è orientata sul connubio proteine e vegetali, piuttosto che carboidrati. Il discorso ovviamente è diverso quando si tratta di una cena conviviale.

C’è poi quella che io chiamo la cucina di tentazione che in inverno subisce il fascino delle zuppe, penso alla zuppa forte o a una Marescialla fatta a regola d’arte, mentre la regina dell’estate è l’insalata di mare. Un’ ultima parola la voglio spendere per chi si riempie la bocca con il termine ‘innovazione’. Per me è la natura stessa che ci suggerisce come ammodernare un piatto. Prendiamo ad esempio pasta, cozze e fiori di zucca che nei mesi estivi si trova sempre nel nostro menù, altro non è che il frutto dell’ascolto della natura. Le cozze danno il meglio di sé proprio in questi mesi, sono grosse, si rilassano con il calore del mare mentre in campagna si schiudono i fiori meravigliosi delle piante di zucca, basta metterli insieme ed il gioco è fatto”.

All’Europeo è l’etica del cibo che ne fa l’estetica, dunque.

Da manuale i bucatini alla Campolattaro, il coroniello in tortiera, il rustico napoletano in perfetto equilibrio tra dolce e salato, e le fritture che assieme a qualche trancio di pizza (marinara, margherita, calzone ripieno) fanno da entrèe.

Altro grande classico la pasta e patate con la provola, la Genovese secondo la ricetta di nonno Alfonso. Mentre i secondi sono soprattutto quelli classici di pesce, pesce azzurro, gamberi a vapore, polipi affogati.

I dolci rispecchiano la grande tradizione pasticciera napoletana, squisita la crostata di crema e fragoline di bosco. E la frutta di primissima qualità, scelta da don Alfonso in persona: su questa non si transige.

Ristorante L’Europeo a Napoli
Via Marchese Campodisola 4
Telefono 0815521323
Sempre aperto
Chiuso la domenica      

 


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