Licata, ristorante La Madia di Pino Cuttaia

Via Filippo Re Capriata 22
Tel. 0922.771443
www.ristorantelamadia.it
Sempre aperto, chiuso martedì e in inverno la domenica sera
Ferie variabili

di Nico Piro*

Quando gli chiedevano perché facesse film sulla Sicilia e non sull’Italia in genere, il “nordico” regista Pietro Germi rispondeva – con il suo sorriso beffardo – che la Sicilia è l’Italia, anzi è l’Italia al cubo. Viene da pensarci durante un lungo viaggio, più lungo del previsto, verso un ristorante siciliano che ti è venuto voglia di provare, perchè è come se qui in Sicilia la regola che vuole la maggioranza dei grandi ristoranti italiani barricati in provincia, sia più che confermata. Confermata, appunto, al cubo.


Per arrivare a Licata bisogna guidare attraverso strade che raccontano di una terra ricchissima e di tanta gente ancora povera, di case senza intonaco e di ferri che sporgono dai solai in attesa di un altro piano, di una classe dirigente (nella migliore delle ipotesi) incapace di realizzare un nastro d’asfalto degno di questo nome (altro che il ponte sullo Stretto…), di chiassose insegne di supermercati e di venditori ambulanti che si “sudano la giornata”.

Lontana com’è dai grandi flussi turistici e dalle cosiddette autostrade siciliane, per Licata non ci si passa, a Licata ci si deve voler andare, mettendo in conto – quasi sicuramente – una sosta notturna.
Anche se cercate il commissario Montalbano, non verrete a Licata, perchè nonostante i tanti richiami a questa cittadina, in realtà la fiction è girata per lo più nella vicina provincia di Ragusa. E’ per tutto questo che, forse, l’unico motivo per arrivare in questa città è rappresentato da una piccola insegna che sembra voler nascondere piuttosto che mettere in evidenza un ristorante assediato dal traffico, da qualche palazzone e individuabile grazie solo ad una vicina statua di Padre Pio (visto che il nostro Tom Tom ha fallito).

Per entrare a “la Madia” (dal nome della credenza, il mobile-piattaia) bisogna bussare e attendere che il personale apra la porta: un corridoio conduce nell’unica sala del ristorante (essenziale ma accogliente) dove ci saranno, ad occhio, una ventina di coperti. Bastano il cestino del pane e il piatto di benvenuto dello chef per farti dimenticare il viaggio; dietro la vetrata che illumina il salone potrebbero esserci New York, Roma o Parigi visto il livello di quello che viene servito.

Nel cestino, si va dalle fette di pagnotta con fichi, pistacchi e mandorle alle “michette” ricoperte di sesamo, dalle focaccine all’olio sino al pane alla cipolla. Almeno una volta durante il pasto verrà portato via (di sicuro, mezzo vuoto) e sostituito con uno pieno, come quello iniziale.

Il benvenuto è una magia che vale tutto il prezzo del biglietto, un’apparente mozzarella di bufala poggiata su una panzanella al pomodoro con pesto di basilico. In realtà si tratta di una costruzione dello chef: un velo, una sfoglia di latte (come quelle che si formano lavorando il caglio) che una volta inciso con la forchetta svela una sorta di densa spuma di latte, quasi un bignè di bufala – leggerissimo nel sapore ma di grande soddisfazione in bocca per la consistenza non evanescente.

Ma andiamo con ordine, i menù degustazione sono due: il classico (80 euro per sette portate) e il creativo (95 euro per otto portate). Una scelta necessaria per avere una panoramica sulla cucina dello chef Pino Cuttaia.
Tra gusti vegetariani di una parte del tavolo, incompatibilità personali con alcuni tra i principali molluschi e desideri varie, nessuno dei due faceva per noi ma Vincenzo, il direttore di sala, con il piacere di chi è orgoglioso del suo prodotto, si è offerto di confezionarci un menù degustazione a testa (con me, c’era mia moglie Elizabeth) – ognuno personalizzato come un abito di sartoria.
I gamberi del mio crudo sono battuti a formare un disco, quasi stampato sul piatto, che si stacca a bocconi col cucchiaio – una consistenza che da’ forza alla delicatezza del sapore, accompagnato da una maionese di bottarga di tonno con olio di mandarino.

I tenerissimi tentacoli del polpo verace allo spiedo sono arrotolati quasi a comporre un cestino e insaporiti da una passatina di ceci con crema di mandarino.

L’ultimo degli antipasti, lascia senza parole per la sua delicatezza: è il baccalà affumicato alla pigna (un ancestrale odore della campagna per il pesce meno marino di tutti), morbido come la spuma di patate che lo accompagna e contrastato dalla croccantezza del sugo di pizzaiola ridotto in piccolissime “caramelle” nascoste sotto il filetto.

Un altro gioco di apparenze arriva con la pasta, i tortelli estivi “ricordo del pesto trapanese” che in realtà tortelli non sono. Bisogna applicarsi per capire che la striscia di pasta all’uovo, ripiegata su se stessa, forma come una fisarmonica dove trovano posto gli ingredienti del pesto alla trapanese: basilico, pomodoro e mandorle. Quest’ultime però non sono tritate perché semplicemente non sono solide, al loro posto c’è del latte di mandorla ad amalgamare l’insieme quasi fosse una besciamella. Sui “tortelli” siedono alcuni filetti di gallinella per pulire il dolciastro finale, ma anche delle patatine fritte come vuole una vecchia tradizione trapanese.

Siamo andati avanti con due pilastri della cucina siciliana: l’arancino e la melanzana. “U’rancino” è classico nell’apparenza, ma è condito con un ragù’ di triglia accompagnato da una salsa di finochietto selvatico. Ne viene fuori un sapore un po’ ruspante come vuole il vero “cibo di strada” ma ingentilito nella consistenza vellutata del sugo e dal finocchietto, ben concentrato.

Sarà per le mie esperienze medio-orientali, ma appena ho visto la sfoglia del cannolo di melanzana mi sono venuti in mente i dolci libanesi, turchi, iraniani, fatti come da un filo di pasta che a spirale ne compone la forma. Il risultato in questo caso è una sorta di norma al cucchiaio, con le melanzane accompagnate da ricotta, pomodorino e formaggio ragusano dop.

A questo punto sarebbe venuta la voglia di provare il pesce cotto sul finto barbecue (la carbonella di mandorle, un altro gioco di scomposizione di sapori tradizionali, riassemblati con estro) ma abbiamo ripiegato verso i dolci. A sorpresa arriva ad aprire la pagina del fine pasto, una granita (pastosa, non acquosa come direbbe un James Bond siculo) accompagnata da una mini brioche, rigorosamente calda. Il tempo per la cucina di preparare il dessert che arriva il mio cannolo siciliano, in realtà un cono che così (trovata da ingegnere) si morde senza franarti in mano (come capita di principio nella versione classica!).
E’ accompagnato da un gelato al marsala e dal marsala Donna Franca delle cantine Florio, finito intanto nel mio bicchiere. Il gelato mi è sembrato un modo per evitare che il dolce ripieno alla ricotta diventasse stucchevole, come capita se viene messo insieme a qualsiasi altro sapore altrettanto dolce. Per Elizabeth, invece, un tortino di mele tiepide, una sorta di soufflé – sorprendente nonostante sia la forma che l’ingrediente base siamo ampiamente stereotipati. Al suo fianco una pallina di gelato al caramello e pinoli, nel bicchiere viene servito un moscato di Siracusa. A chi viene da un Paese – gli Stati Uniti – dove la torta di mele è un monumento nazionale, questo dolce richiama alla mente un sapore dell’infanzia – vuol dire che siamo di fronte ad un caso di globalizzazione “buona”.

Compresa l’acqua minerale e i vini (oltre a quelli da dessert, durante il pasto un Cyane 2007; moscato di Siracusa vinificato secco dalla cantina Pupillo), dopo due ore e mezza di pasto il conto è stato di 190 euro per due persone. Un grande rapporto qualità/prezzo soprattuto considerati i costi fissi (dal personale al cestino del pane) che un ristorante del genere deve affrontare, Licata o New York, sala vuota o sala piena che sia.

Ma quanto è difficile gestire un ristorante così in condizioni “ambientali” del genere? La domanda non l’abbiamo potuta fare a Pino Cuttaia (quel giorno “fuori cucina”), chef emigrato a lungo al nord e poi riportato al sud dopo un anno di matrimonio dalla moglie – la signora Loredana che oggi si muove silenziosa in sala.
A risponderci è stato Vincenzo: “E’ difficile, senza dubbio. Perché’ ci sono giorni in cui arrivano le persone sbagliate, altri in cui non arriva nessuno. Ma poi ci sono giorni in cui arrivano persone che sono venute da lontano solo per la nostra cucina, persone che vogliono provare quello che facciamo. Questo ti dà la forza di andare avanti. E noi dobbiamo andare avanti”. Non c’è dubbio vista che secondo due viandanti del gusto (“critici” per carattere non per professione) La Madia può rivaleggiare senza timori con tanti tra i grandi, consacrati, della ristorazione italiana.

Un buon motivo per venire a Licata e guardare con più speranza a questa terra.

*L’autore è inviato del Tg3


Dai un'occhiata anche a:

Exit mobile version