L’immaginazione al potere

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

Io ne ho… viste cose che voi umani non potreste immaginarvi…”

Blade Runner, tra umani e androidi l’abisso non è più l’aspetto fisico ma la profondità cognitiva, la potenza mnemonica. Oggi quella stessa frase potrebbe esser pronunciata dai vostri smartphone o dalle vostre playstation: l’androide Roy Batty ne sarebbe sopraffatto, con inevitabile dislocazione della centralità dell’esistere, dall’uomo, o umanoide, alle cose, agli oggetti: esse non sono più un’espressione del nostro pensiero, non solo ci sopravvivono, sicure della loro indipendenza, ma hanno più memoria e più immaginazione di noi. Tutti quei… momenti non andranno perduti nel tempo, non si spargeranno lacrime nella pioggia. Non è tempo di morire.

Gli oggetti ci guardano: non più robot, nemmeno androidi, nessun mondo nuovo o astronavi intergalattiche. La fantascienza è tra noi, il futuro si consuma in una applicazione, nella verde sequenza di codici di un Matrix parallelo: tutta l’immaginazione possibile è già stata anticipata e applicata, è già stata pensata. Oggetti capaci di pensare.

E chissà se anche tutta la realtà che ci circonda non sia lì ad interrogarsi sui nostri comportamenti. Un colore, un profumo, una sembianza sono alla fine espressioni di memoria, nonché attenzioni che le cose manifestano nei nostri confronti, linguaggi di comunicazione: perché noi non siamo di alcun colore, le cose sì.

Son le cose che pensano

ed hanno di te sentimento.

Esse t’amano e non io,

come assente rimpiangono te

son le cose, prolungano te

certe cose

Balenano orgogliose ipotesi di riprogettazione di punti di vista: forse fare tabula rasa, forse affidarsi a menti libere e vergini da smartphone e tablet, forse trarre esempio dalle macchine stesse e sviluppare autonoma creatività, coniugando immaginazione e memoria. Nostra. “La memoria crea matrimoni illegittimi tra le cose”, diceva Bacone; la dea della memoria Mnemosyne era la madre di tutte le muse: in fondo avere memoria è scrivere, ricordare, archiviare, provare rimorso, quindi avere un’anima. Iscrizioni su una tabula di cera, la mente: non diverso dal digitare su smartphone o iPad.

Anni jalissici, fiumi di parole: messaggi, mail, post, tutto costruisce memoria e alla memoria attinge. Un mondo di documenti, fatto di parole. E’ la parola che salda memoria e immaginazione, fondendole in un momento creativo nuovo, non ancora conosciuto, non ancora archiviato, di cui non c’è esperienza. La scrittura, e quindi l’approccio letterario alle cose, prevede il passato, la capacità di farci amare dalle cose che ci circondano, la possibilità di descrivere la realtà col linguaggio delle immagini, fino a craere mondi nuovi, lontani da tecnicismi e specializzazioni da sbandierare asfitticamente.

E’ certo, a questo punto (e qualcuno l’avrà pur intuito), che le zeppole di San Giuseppe erano troppe, ma vale la pena considerare come nell’enogastronomismo acuto che ci affligge stia pandemicamente riproducendosi la voglia di racconto, di riportare e immaginare storie, nei piatti, nei luoghi, nella terra o nei vini in un bicchiere.

La narrazione come forma privilegiata di comunicazione, la concatenazione di esperienze che fanno una storia da raccontare. Non importa, ora, ammettere che cose come questa che sto scrivendo, per esempio, non possano meritare che l’oblio del cestino: interessa invece sottolineare la sopravvenuta necessità di immaginare scenari e registrare suggestioni. Persino certi succhi o frullati sono stati chiamati “Storie di frutta”, così come la parola “storia” è stata impiegata a proprosito di un chianti di un’antica casata toscana (che forse vi lampeggia là, in alto a sinistra): indubbiamente lo storytelling sta facendo proseliti e il rischio di recrudescenza di nonne, mele, pere e vignaioli in un bucolico mulino bianco è molto evidente, o allarmante. Ma qui parliamo di creatività, non di musei: il senso del racconto è surfante curiosità e forse un briciolo di conoscenza, altra cosa rispetto alla lista della spesa delle rimembranze.

Andrea Scanzi sostiene sia necessario, nonchè utile e dilettevole, cogliere l’aspetto letterario in un vino, captare l’esistenza di personaggi di spessore narrativo, di vite e luoghi che consentano di vedere, in trasparenza, storie in un bicchiere. Se poi si conviene che è buono solo quel vino che resta nel tempo, non si può non vedere che in quel vino, attraverso la parola, si possono collegare immaginazione e memoria, letteratura ed esperienza, in altre parole creatività e novità di linguaggio. Un lavoro che chiede fatica, ma che restituisce bellezza (cit.).

Probabile che della bellezza improvvisa, quella che ti sorprende, al mondo succube delle macchine silicee, estasiato della loro potenza, non interessi punto o nulla: lo dimostrerebbe il continuo richieder patenti, tagliandi ed esami di professionalità non meglio definita, a chi di vino e di cibo si trova a scrivere, peraltro spesso bene. Chiacchiere in cerca di distintivi. Non sanno, loro, le macchinelle, che mettere l’immaginazione al servizio della parola, di quante e più belle parole possiamo conoscere, è così inebriante che forse lo si può solo immaginare ( ma alle macchine tutto ciò riesce stranamente e ottusamente difficile, in una sorta di sindrome autodistruttiva).

Lo sa bene, invece, Sandro Sangiorgi che, stando, per ora, alla presentazione del suo ultimo libro, dedica futuristicamente un’ intera sezione alle parole del vino, immaginando “una sorta di dizionario filosofico dei termini e degli aggettivi che si possono usare per descrivere un vino, evitando sterili tecnicismi e utilizzando fino in fondo la ricchezza lessicale della lingua italiana”. Come dire un approccio umanistico al vibrante liquido ventoso. Abbracciamoci forte.

Osservare le cose, ascoltarne la voce, fonemi di colori, suoni e rumori, stabilire corrispondenze anche d’amorosi sensi, ci consente di provare a comunicare una qualche emozione, spiazzando gli smartphone e le loro app. Memoria e immaginazione, per creare idee: lo sanno i cuochi veri, lo fanno i vignaioli seri. Io, poi, quelle idee le mangio, o le bevo, e cerco spudoratamente di scriverne.

Le zeppole hanno devastanti effetti sulla considerazione di sé, se poi alla fine mi inducono a riprendere, da un’altra vita, questa conclusione:

“ Un’idea, un concetto, un’idea … se potessi mangiare un’idea, avrei fatto la mia rivoluzione”. Io le idee me le mangio: questa è la mia passione, questa è la mia rivoluzione. Ho sempre cercato di mangiarle, convinto di fare un piacere al cuoco, perché “un’idea, finché resta un’idea, è soltanto un’astrazione”. Prima le mangio, poi eventualmente le fotografo: cerco di fotografare la mia emozione, solo la mia emozione. E per far questo basta un dettaglio, un bicchiere, una luce, un rumore, una parola: sì perchè le fotografie si possono fare anche con la memoria. Le foto sono un colpo, shoot, che rimbalza, rincula, immortalando un soggetto, ma anche lo stato d’animo del fotografo. E per questo poco conta il mezzo, conta la sensibilità: fortunato chi la possiede. E’ quello che le foto raccontano ciò che importa, punti di vista spesso in contropiede, di sghimbescio, storie sghembe, solarizzate, tagli di luce, racconti di pancia e di gola che mal si accostano al paludamento, alla omologazione, al sistema.
Mangiamole queste idee, fotografiamone le briciole, ascoltiamo le risate e i tacchi sbilenchi che si allontanano sui selciati davanti a osterie e ristoranti, cerchiamo di ridere senza prenderci troppo sul serio, finalmente, sinceramente e fieramente “gastronomicamente scorretti”.

Maurizio Ferraris – Se la tecnologia sogna per noi – La Repubblica

Alessandro Baricco – Dall’America a un frullato, così tutto diventa storia – La Repubblica

Pasquale Panella – Le cose che pensano


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