Marco Malvaldi: Odore di chiuso. Di Pellegrino Artusi e dell’allegoria della maionese

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

“Gli alberi non crescono tirandoli dall’alto, dottor Bertini”.

A Pellegrino Artusi non pareva vero poter entrare a gamba tesa in una discussione politica, proprio gli fibrillavano i grandi mustacchi da generale di corpo d’armata. Tipo tranquillo, già avanti negli anni, capelli all’umberta e finanziera, sentiva riaffiorare i suoi trascorsi anticlericali e mazziniani ogni volta che qualcuno perdeva di vista la realtà avvitandosi in fumosi discorsi idealisti.

Siamo nel 1895 e l’Artusi, che circa quattro anni prima aveva pubblicato la prima edizione de La Scienza in cucina e l’Arte del mangiar bene, si trova in una splendida tenuta aristocratica in Maremma, dalle parti di Bolgheri, ospite illustre del barone di Roccapendente.

Divertente fine settimana, come dice lo stesso gastronomo. Divertente da divertere, prendere altre strade, insomma sorprendere: sì perché a parte la variegata serie di personaggi che si aggirano nel castello, detto del paesaggio romantico e della pregevole qualità del desinare, nella notte c’era scappato il morto e tanto per essere originali il defunto era il maggiordomo.

Il giallo di Marco Malvaldi prende le mosse dalla fotografia di questo microcosmo: non ci addentreremo nello sviluppo dell’intreccio, privilegiando la niente affatto casuale capacità del racconto di mettere a fuoco un’epoca, il periodo umbertino successivo all’Unità d’Italia.

E’ proprio a tavola, in un garbato confronto dialettico tra gentiluomini, che l’Artusi manca poco si ingozza al sentir sproloquiare di una unità ormai raggiunta grazie a leggi emanate dall’alto, cui faceva da contraltare l’opinione per cui cercare di unire pezzi di paese così diversi fosse inutile, persino impossibile, come mescolare acqua e olio. E lì si incazzò, per poi placarsi prima di subito, da buon gentiluomo, sia chiaro.

Io non discuto che per essere unito un paese debba avere leggi comuni, e questo è un grande traguardo. Mi limito ad osservare questo, che gli alberi non crescono tirandoli dall’alto. Ci vuole tempo, concime e criterio. Questo paese è stato costituito da tempo immemorabile da due tronconi estranei l’uno all’altro, e pretendere che essi diventino un solo paese con uno schioccar di dita, a furia di leggi, mi sembra francamente troppo sperare. Permettetemi una breve digressione di cucina. Il nostro pesce è condito con della maionese. Essa è una emulsione stabile di olio in una base acquosa, costituita da succo di limone e aceto. In pratica è come se fosse un insieme di minutissime goccioline d’olio disperse in una matrice acquosa: la stabilità di tali gocce è data da un componente del tuorlo d’uovo, detto lecitina. Quest’ultima ha la funzione di ancorare le gocce all’ambiente acquoso, evitando che l’emulsione si rompa, e il tutto si smescoli tornando ad olio che galleggia in acqua. Per fare la maionese bisogna procedere con calma e metodo: sbattere alquanto i rossi d’uovo, e poi aggiungere olio a filo, pian pianino, all’inizio quasi goccia a goccia, mescolando col cucchiaio finchè non sia tutto incorporato. Alla fine si aggiunge il succo di limone, oppure l’aceto o la senape come fanno i francesi. Abbiamo ottenuto una maionese, qualcosa che non è acqua e non è olio, eppure è assai più pregiato delle componenti di partenza, con una consistenza tutta sua, tale da risultare soda e cremosa, anche se viene ottenuta mescolando dei liquidi. Ci vuole pazienza, non si può fare con la forza bruta. E ci vuole qualcosa che convinca acqua e olio a stare insieme, che agisca su entrambe allo stesso modo”.

Fin qui Pellegrino Artusi: sebbene attraverso una pietanza di origine francese, considerava la capacità della cucina di svolgere “il civilissimo compito di unire e amalgamare, a livello d’inconscio collettivo, l’eterogenea accozzaglia delle genti e delle culture che solo formalmente si dichiaravano italiane” (Camporesi, 1991). Anche per questo aveva accarezzato l’idea di un libro di cucina comprensibile a tutti, perché tutti mangiamo; scritto in italiano, perché siamo italiani; con i dosaggi ben chiari, in grammi e litri, che sono uguali per tutti. E se un tale libro non esiste, lo scriverò io stesso, aveva pensato.

Il libro di Malvaldi è come uno zoom di Google Maps: ti avvicini e ti allontani nello spazio e nel tempo. La tenuta di Roccapendente si allarga alla fine dell’Ottocento, espandendosi sino ai giorni nostri: e non saprei se gioirne o meno.

Cliccando cliccando, ci vuol niente ed è già Carlin Petrini, che scrive: il mangiare italiano è al tempo stesso metafora e risultato di ciò che avviene tutte le volte che si forma un’identità. Non si parte mai da un punto fisso, da una purezza incontaminata. L’identità si forma attraverso lo scambio, che ha origine con l’incontro e lo scontro, in un costante confronto con il diverso. Una dialettica che nella penisola si è sempre verificata in maniera intensa, sia nei confronti del resto del mondo, sia al suo interno, tra i diversi territori. Miriadi di influenze, vorticare di genti, d’ingredienti, di saperi e pratiche che restano patrimonio collettivo, unificante: una sorta di rete che genera l’identità italiana, attraverso la conoscenza, la memoria e il rispetto per la più forte risorsa creativa che l’uomo abbia a disposizione: la diversità.

Artusi e Petrini, a distanza di un secolo: la maionese e l’identità, qualcosa di prezioso che nasce dalla diversità. Si parla di cucina, si guarda a una nazione: lo dimostrerebbe il dato per cui l’orgoglio nazionale si identifica con le bellezze della tradizione a tavola per il 71% degli italiani. Vallo a far capire.

Il 1895 fu l’anno in cui Guglielmo Marconi riuscì ad inviare il primo segnale radio, l’anno in cui Maria Montessori venne ammessa, prima donna, nella società medica, l’anno del cinematografo dei fratelli Lumière: il mondo stava cambiando. Anche nel piccolo grande castello maremmano si avvertono echi di indipendenza, di diritti della donna e della famiglia, si accenna al divorzio, si parla di civiltà, di progresso, di caduta dei privilegi, persino di riconversione. Una sarabanda grottesca e divertente, sarcastica e puntigliosa, impregnata di toscanità fino all’osso nel linguaggio e nell’impazienza irriverente: odore di chiuso, bisogno, urgenza di aprire la finestra della storia per una ventata d’aria fresca.

Su tutti il riflessivo Pellegrino Artusi, dotato della qualità più rivoluzionaria: la curiosità, per gli altri, per la società, per le sottane e nella fattispecie per un delizioso pasticcio di tonno e peperoni che, guarda un po’, chiamerà “Polpettone all’uso zingaro” (ho capito che è fondamentale aggiungere gli ingredienti nel giusto ordine, e che tali ingredienti siano dei più fini. Avendo a disposizione olive taggiasche il piatto ne guadagnerebbe).

Sono passati cent’anni dalla sua morte e c’è ancora odore di chiuso.

In fondo, alla fine, tutto si potrebbe risolvere in uno sberleffo affatto toscano: né più né meno, è il caso di dire, una pisciata li seppellirà.

Marco Malvaldi – Odore di chiuso – Sellerio editore Palermo

Carlo Petrini – Non c’è mai stato il pensiero unico, ma uno stile – Venerdi di Repubblica

Gianni Mura – La Bibbia dei fornelli prima di freezer e surgelati – Venerdi di Repubblica


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