Napoli, Nunzia Mattozzi:la passione per la cucina, l’amore e l’allegria da oltre 50 anni a due passi da Forcella

Ristorante il Giardino di Napoli
Di Nunzia Mattozzi
Via Pietro Colletta 25 – 27
Tel./Fax +39. 081 287884Aperto dal lunedì al sabato a pranzo e cena 12,00 – 16, 30/ 19,00 23,00.Chiusi la domenica e da luglio anche il sabatoCarte di credito e bancomat: si
Ferie: tutto agosto

di Giulia Cannada Bartoli

Due secoli fa nessuno avrebbe immaginato che, in Piazza Bovio, meglio conosciuta come Piazza della Borsa, costruita nel 1884 durante il periodo del “Risanamento, momento in cui con la scusa del colera venne abbattuto gran parte del centro antico della città, si sarebbe inaugurata, a quasi due secoli di distanza, la stazione delle Metropolitana “Università”, progettata dall’avveniristico designer anglo-indiano Karim Rashid. Circa due i chilometri su cui si muove la navetta, da Piazza della Borsa a Piazza Dante.

La piazza, che deve il suo nome all’antistante palazzo che una volta ospitava la Borsa di Napoli, è il punto di partenza di una delle arterie principali della città, il Corso Umberto I, comunemente chiamato il’Rettifilo‘, per via dell’andamento rettilineo
che conduce fino  a  piazza Garibaldi.

Il corso fu costruito in epoca umbertina (da ciò il nome) durante i lavori del Risanamento, in seguito ai quali furono sventrati interi rioni e demoliti edifici, anche di grosso pregio artistico o di valore religioso, per fare posto a moderni palazzi (costruiti utilizzando il tufo estratto dalle cave di Soccavo, Pianura, Chiaiano e Miano). Per la costruzione di Piazza della Borsa, sempre durante il periodo del Risanamento, fu sventrata una parte della città vecchia. Al centro della piazza si trovava l’elegante fontana del Nettuno, tra le più monumentali della città.

La sua costruzione risale agli anni 1595-1599, costruita nei pressi dell’arsenale, fu portata nel 1629 nel largo di Palazzo (piazza Plebiscito), e, poiché intralciava le feste in piazza, fu presto spostata a S. Lucia, dove fu arricchita da sculture di Cosimo Fanzago, finalmente, nel 1800 rientrò in piazza Borsa, dove è rimasta fino al 2000, quando, anche per facilitare i lavori del cantiere della metropolitana, è stata restaurata e riportata nell’antica posizione in via Medina. Percorrendo tutto il Rettifilo, destreggiandosi tra studenti delle vicine facoltà, gente che guarda le vetrine particolarmente convenienti e ambulanti che vendono ogni sorta di accessori, si svolta all’ultima traversa sulla sinistra, in direzione Piazza Garibaldi, per trovarsi in via Pietro Colletta, indirizzo del locale di Nunzia Mattozzi, esponente della storica dinastia napoletana di pizzaioli e ristoratori.

Prima di entrare, noto un caos fuori dal normale: è la fila delle persone che aspettano per mangiare la pizza al Trianon, storica pizzeria di città, si gridano i numeri del turno, come fosse una tombolata natalizia.

Sono in anticipo,  ricordo che a pochi passi dalla piazza e da Via Pietro Colletta, prendendo per via Annunziata, si arriva all’omonimo complesso religioso che ospita la famosa “ruota degli esposti”. L’origine della comune usanza napoletana di attribuire di padre in figlio cognomi del tipo Esposito o Esposto trova la sua ragione d’esser proprio nella storia di questa chiesa. Si tratta di una di ruota filtro, ultima versione di numerose altre ruote che in cinquecento anni di attività è stata più volte sostituita, in legno massiccio, incavata nel muro e scorrevole su se stessa. L’oggetto e il locale in cui essa è alloggiata oggi non hanno alcuna valenza artistica e neppure alcun significato architettonico; ma restano una straordinaria memoria storica di questa città.

Tutta quanta la struttura negli anni ‘50  si presentava in tristi condizioni. Le suore della clausura dell’annesso convento, attraverso l’interscambio per mezzo della ruota, ricevevano offerte e ricambiavano altrettanto con vivande e indumenti per  più bisognosi. Capitava che donne del popolo napoletano, rimaste incinte non per loro volere,  affidassero alle suore i propri figli nati dalla disgrazia della guerra con gli spagnoli e con gli stranieri, che a quel tempo popolavano le vie della città. A volte, uno scialle, un pezzo di stoffa ricamata, mezza moneta nascosta tra le bende, indicavano un segno distintivo di quel figlio abbandonato, fatto che anticipava la venuta in futuro, della donna a reclamarne la maternità. Le monache per conto proprio iniziarono a distinguere uno ad uno i bambini, assegnando loro, sul registro, la toponimia di figlio esposto alla ruota, e dunque appunto, Esposito, aggiungendo alcuni dettagli, tipo:piccolo, minuto, o, paffutello,  di colore, biondo o castano e così via. La ruota esiste ancora oggi come sorta di attrazione culturale, un registro pressoché originale riportante data, ora e connotati dei bimbi lasciati alla ruota: il registro è sotto tutela grazie ad una normativa sul cartaceo d’altri tempi, che ne protegge la preziosità storica.

Continuando per il  tratto tra  Piazza Calenda e Via Pietro Colletta,  sorge il teatro Trianon, inaugurato l’8 dicembre del 1911 dalla  compagnia di Eduardo Scarpetta, di cui facevano parte il figlio Vincenzo, Bianchina De Crescenzo, Della Rossa e la Perrella. Ma perché fu chiamato Trianon?

Forse per un richiamo a quel luogo di golosità, appunto il Trianon, che era poi  il nome di un villaggio che Luigi fece radere al suolo per far posto ad una costruzione dove potersi ritirare, solo o con la famiglia, per pranzare lontano dagli sfarzi della corte.  Nel 1923 iniziarono le “matinée”con spettacoli misti di prosa, varietà e cinema. Il pubblico di queste lunghe mattinate era formato in massima parte da gente semplice e di poche pretese, proveniente dai quartieri più popolari di Napoli e dalla provincia.

Questi avventori erano soliti portare al seguito, custodito nelle tasche della giacca, un cartoccetto contenente colazioni a base di frittatine, zeppole, panzarotti e palle di riso. Alle bibite, invece, ci pensava il gassosaro che, al grido di “gassose, chi beve!” percorreva, anche durante lo spettacolo, i corridoi della platea stappando bottigline a destra e a manca.  L’idea di offrire al pubblico spettacoli mattutini a prezzo ridotto, chiamati “matinée”, nacque negli Stati Uniti a partire dalla grande depressione del 1929. Da noi arrivò alla fine della seconda guerra mondiale al seguito delle truppe americane con la polvere di piselli, il DDT, la penicillina e tanti film che il regime politico precedente aveva proibito. Gli italiani ebbero così, in un momento in cui scarseggiavano risorse e lavoro, la mattinata al cinema che dava l’opportunità di passare il tempo, distrarsi, sognare e sperare nel futuro. A Napoli, come in tutte le grandi città italiane, i cinema si organizzarono per aprire di prima mattina, dopo aver fatto una rapida pulizia in sala con acqua, segatura e creolina. La “Broadway” napoletana era fra la Ferrovia, il corso Garibaldi, piazza Carlo III ed il quartiere Vasto, dove si contavano 16 cinema e 4 teatri; seguiva la zona del centro compresa fra la Galleria Umberto, via Roma, Piazza Dante e zona Museo con 17 cinema e 6 teatri.

Il biglietto d’ingresso alla mattinata costava circa 60 lire, dava ampia scelta di posto sia in galleria che in platea. L’entrata ed uscita dal cinema era completamente a proprio piacimento. Lo spettacolo intero durava circa 3 ore e comprendeva il film del giorno preceduto da un documentario,  dalla  nota  settimana  INCOM, una sorta di telegiornale in differita, vari trailers, un cartone animato e qualche piccola, timida pubblicità.

Le prime furono quelle del “Cynar” l’aperitivo a base di carciofo e quella del lassativo “La dolce Euchessina” che venivano regolarmente accolte dal pubblico con bordate di fischi e pernacchie.

La durata dello spettacolo costringeva gli spettatori ad organizzarsi con generi di prima necessità: robuste colazioni, “cuoppi” di zeppole e panzarotti, o dello “spassatiempo” che consisteva in cartocciate di noccioline americane, semi di zucca, ceci, fave secche, carrube e lupini.

La domenica ed i festivi, era usanza insieme all’abito buono e la camicia fresca, prima di entrare alla mattinata, rifornirsi presso la famosa pasticceria Attanasio alla ferrovia, di una bella guantiera di sfogliatelle che mangiate nel buio della sala davano alla mattinata il sapore della festa

Le bevande invece, si compravano direttamente in sala dall’omino in lisa giacca bianca che con un vassoio tenuto al collo da una cinghia, passando fra i corridoi durante l’intervallo, con voce monotona diceva”Aranciate, gassose, chi beve” o “giovani caramelle, biscotti amarena, 10 lire chi beve”. Bere, mangiare? Guardo l’orologio è quasi mezzogiorno. Ritorno in Via Pietro Colletta al n. 25, mi apre la porta una bella signora bionda dagli occhi verdi che sprizzano voglia di vivere, è Nunzia Mattozzi, la proprietaria, con il marito Salvatore D’Antonio dell’unico locale della Dinastia Mattozzi che si dedica esclusivamente alla ristorazione ed alla cucina partenopea di tradizione, lasciando l’arte della pizza al resto della grande famiglia.

I Mattozzi sono  tra le più  vecchie famiglie ancora attive che hanno costruito la fortuna delle pizzerie napoletane da due secoli a questa parte. La storia iniziata  a metà ‘800 è andata avanti, di generazione in generazione, con immutata passione sino ai nostri anni. Le pizzerie sono famosissime e sparse in vari quartieri della città. Nunzia Mattozzi è figlia di Eugenio, a sua volta figlio di Alfonso, quello che ha portato avanti il famoso ristorante- pizzeria L’Europeo fino alla sua scomparsa nel 1955, lasciando la gestione ai figli Luigi ed Eugenio, appunto il padre di Nunzia, colui che, nel 1960, dopo il rischio di fallimento, portò ad altissimi livelli  “L’Europeo”, alle spalle di Piazza della Borsa, lasciandolo poi al fratello di Nunzia, Alfonso che attualmente  lo conduce.

Intanto Nunzia, che è praticamente nata tra forni e cucina, da ragazzina conosce Salvatore D’Antonio, insieme rilevano  un piccolo locale in Via Duomo di fronte all’omonimo Varco del Porto  e lo portano avanti fino al 1979, quando, per ragioni di pubblica utilità (l’allargamento della carreggiata) il palazzo viene espropriato e demolito. Salvatore e Nunzia, entrambi giovani entusiasti e testardi non si arrendono: trovano in Via Pietro Colletta un locale su due livelli e tanto di cantina, completamente da ristrutturare. Naturalmente la magica coppia, ancora oggi innamorata come il primo giorno, si scorcia le maniche e trasforma il locale in un delizioso ristorante di circa 50 coperti, rendendolo simile ad una cucina di campagna.

Anche per questo motivo accettano di buon grado la richiesta dell’ex gestore di lasciare il nome originario: “Il Giardino di Napoli”. In effetti, pur trovandosi  in pieno caos cittadino, a due passi da Castel Capuano, entrando si ha la sensazione di respirare aria fresca, come fuori città.

Il locale risale ai primi del ‘900 e da  30 anni è passato a Nunzia e Salvatore. Il  loro  unico cruccio è  sapere che, quasi certamente, non avranno continuità, le due figlie hanno scelto altre strade, ma, neanche questa volta gli “sposini” si fermano, mi dicono:  “ sì, siamo anzianotti, ma ce la facciamo ancora e finché  potremo, andremo avanti.” E’ bellissimo vederli lavorare fianco a fianco, ogni tanto un battibecco, poi scherzi, sorrisi, gesti affettuosi e tanto accogliente calore verso la clientela, per la maggior parte abituale.

Salvatore, oltre ad essere un ottimo maestro pasticciere,  si occupa dell’accoglienza e del servizio insieme a Lucia, Nunzia è quasi sempre ai fornelli, con il prezioso aiuto di Ukri, ragazzo tunisino con loro da tredici anni, ha imparato benissimo a fare gli gnocchi.

Il locale ha tanto legno, due grandi botti che fungono da piedi al lungo buffet di sfizi e antipasti.

Tante buone bottiglie di vino campano e non, con una discreta profondità di annate. Niente paura, c’è  del buon vino della casa: falanghina e piedirosso alla mescita. Semplicità anche per i tavoli, con tovaglie quadrettate e quotidiana, ma fine hotellerie.

Salvatore mi accompagna di sotto a visitare la cantina, è uno spettacolo: ci si potrebbe fare un altro locale, tutto in muro grezzo, soffitti a volta, bottiglie polverose. Affascinante. Ovviamente per le bottiglie importanti sono a disposizione i calici professionali.

Nunzia mi racconta della sua cucina, soffermandosi a spiegare quasi tutte le preparazioni dei piatti che elenca, tenendo a precisare la qualità delle materie prime ed il rispetto delle  ricette della tradizione. La spesa è giornaliera, il menù ha una base fissa e diversi piatti del giorno. Il buffet degli antipasti è sontuoso, viene preparato fresco ogni  giorno, niente avanzi. Verdure di stagione di  ogni tipo e cucinate in mille modi diversi e fantasiosi, come nella più classica tradizione napoletana. Ogni giorno si cambia: cipolle bianche al gratin, patate al forno insaporite da pomodorini e origano,

melanzane sale e pepe, peperoni in padella con olive e capperi, carciofi alla giudea, peperoncini verdi al pomodoro, rondelle di melanzana fritta conditi alla montanara con passata di pomodoro e parmigiano, o farciti prosciutto e provola.

Ancora friarielli, zucchine alla scapece, melanzane alla griglia, spinaci, finocchi in insalata, e poi ogni giorno  polpette fritte e provola di Agerola tra le più buone che abbia mai assaggiato.

Il menù è molto vario, la fantasia di Nunzia, pur restando nella tradizione, non ha limiti. I primi spaziano dai classici: penne lisce alla genovese con le cipolle ramate (mitica),

risotto zucca e gamberi preparato con un pizzico di piccante, cottura perfetta alla faccia di chi sostiene (spesso a ragione) che a Napoli il risotto è meglio non mangiarlo. Ancora le fettuccine calamari e rucola, il pesto alla “Nunzia” con pomodorini, pecorino e olive nere per condire le pappardelle; il menù è in equilibrio tra mare e terra, ecco i paccheri all sugo del coccio(gallinella o pesce cappone), oppure, i creativi cannelloni di mare che richiedono parecchi  passaggi per la preparazione nonché abilità nel riconoscere i diversi punti di cottura degli ingredienti. Nunzia fa tutto ad occhio, tempi e quantità ce li ha nel sangue.

Continuiamo con il mare: spaghetti con polipetti affogati, con vongole, o misto di frutti di mare, penne con spada e melanzane, deliziose le linguine con alici, pomodorini, pecorino grattugiato e una punta di peperoncino.

I piatti di terra riportano alla sontuosità del pomodoro: manfredi con sugo e ricotta, fusilli con provola e pomodorini, e ancora un guizzo di Nunzia,“La strombolana”, sugo di pomodoro con olive verdi, nere e capperi, frullato, versato sugli spaghetti rigorosamente al dente, una spruzzata di pecorino e  via. Le minestre con i legumi sono tutte presenti, così come la pasta e patate con o senza provola, pasta e zucca,  verze e riso, lasagna a carnevale, gnocchi fatti in casa tutti i giorni, gli ziti lardiati, la pasta al “grattè”, il sartù di riso, il “gattò” di patate, il ragù e la genovese con rispettive carni come secondo piatto e poi, dulcis in fundo,  il mitico “‘O Roje”, i maccheroni al sugo, nudi e crudi, senza olio  che si vendevano per strada e che costavano due soldi, così che anche i più poveri  potevano permetterseli, Mario Avallone docet . D’estate: insalata di riso, caponata alla siciliana, spaghetti con sugo alle erbette (una sorta di pesto con pelati di pomodoro e tutte le erbette a disposizione, a crudo, un filo d’olio buono e siete a posto),  insalata di verdure miste a crudo con peperoncini verdi, zucchine, pomodori, peperoni, rucola, olive, un’esplosione di colori e freschezza con crocchè di patate fatti in casa.  La pasta è di primissima qualità con grande assortimento di formati. Il pane è profumato, croccante, una pietanza a sé, arriva dai comuni vesuviani.

La carne segue la tradizione: braciole al sugo, polpette fritte o al sugo,  trippa al pomodoro, agnello alla brace, rigorosamente di Sant’Anastasia,  salsicce alla griglia, lombo di vitellino affettato crudo al momento, coniglio all’ischitana con i bucatini, arista di maiale, e nei giorni freddi “‘a zuppa e carna cotta” e la zuppa di soffritto fatta da Nunzia,   la  mozzarella è  dell’aversano, sempre di grossa pezzatura mi specifica Nunzia, se no non sa di niente. Salvatore si occupa anche della spesa e soprattutto dell’acquisto del pesce: orate, pezzogne, alici  da fare in tortiera, o, indorate e fritte, gamberoni, frittura di paranza o di calamari, pesce spada, stocco e baccalà da fare fritto o alla carrettiera e tutto quanto il fornitore di fiducia possa offrire di fresco ogni giorno. La clientela, come dicevamo, è abituale, inoltre data la vicinanza con gli ospedali e l’università, funziona molto anche il servizio da asporto.  Purtroppo non si sa ancora per quanto tempo, perché  la zona Orientale di Napoli sta per essere “arricchita” dalla costruzione dell’Ospedale del Mare, una grande opera architettonica affidata a Renzo Piano.

Un ospedale con 450 posti letto, un albergo con 50 posti letto per i familiari, una palazzina amministrativa-direzionale ed un centro commerciale per l’umanizzazione. Di fatto è quasi tutto ancora sulla carta. Ah, poi, il complesso  tra i più grandi d’Europa, sorge a un centinaio di metri dall’area definita ufficialmente “zona rossa” (massimo rischio vulcanico) nel Piano di Protezione Civile relativo al rischio del Vesuvio. Naturalmente, ciò comporterà la chiusura degli ospedali Ascalesi, Annunziata e Loreto mare ubicati al centro di Napoli.

Torniamo a note meno amare: i  dessert sono la specialità di Salvatore, in primo luogo  la pastiera che è il suo orgoglio,poi tante crostate,

(il suo segreto è una fantastica pasta frolla della quale  non rivela la ricetta), al cioccolato, alla frutta e alle arance amare (deliziosa);

ancora: tiramisù, panna cotta,  torta al limone e cassata napoletana, ossia senza naspro. Nunzia completa l’offerta con mandarini caramellati e liquori fatti in casa: rosolio con petali di rosa, o fragoline e liquore al latte da servire ghiacciato.

Al di là della qualità e della varietà dell’offerta, ciò che si avverte da Nunzia e Salvatore è il calore umano, la gioia di accogliere di altri tempi, la dedizione assoluta al benessere dei clienti. Nunzia, mi racconta Salvatore, è venuta a lavorare sempre, dopo una brutta caduta, il giorno dopo era ai fornelli e persino il  giorno del parto   delle sue due figlie era ancora ai fornelli. La forza di questa coppia è la voglia di fare le cose insieme, di far star bene la gente e di saper vivere senza troppi affanni o arrabbiature, tanto la vita è una sola.

How Much?

Per un abbondante misto di contorni self service, un primo in  porzioni pantagrueliche o un secondo di carne o pesce, spenderete circa 20 euro con il vino della casa. Se ce la fate e volete partire dall’antipasto e sopravvivere fino al dessert, siamo sui 25 – 30 euro vini esclusi. Il pesce più pregiato è alla carta. Saranno denari ben spesi: non avrete problemi di digestione, mangerete tranquilli e senza fretta se ne avete voglia,

veloce se “jate ‘e  pressa” ( se avete fretta), in compagnia di Nunzia o Salvatore che avranno sempre qualcosa di bello da raccontarvi, o leggendo il giornale a disposizione dei clienti,

sorseggiando un ottimo caffè.

Certo si può e si deve volere di più dalla vita: vivere una vita sana, giusta, sostenibile, intanto questi sono i volti unici e irripetibili di  Napoli,  quelli che proteggono  la memoria e intramontabili valori di semplicità e solidarietà. Persone come Nunzia e Salvatore vanno custodite come tesori, fuori da ogni folklore o, luogo comune,  sperando non scompaiano mai…


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