New York, Chelsea: Buddakan Restaurant

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

E al terzo giorno il gurmé visitatore veloce si riposò. Un mese prima di partire, dopo aver realizzato, seppure obtorto collo, che non tutti potevano spasimare per una serata di cucina shojin, il nostro, con un inconsueto gesto di magnanimità, liberava la compagnia dalla piatta schiavitù gurmettistica e con un semplice clic su Open Table prenotava un tavolo all’insegna del “macchisenefrega, è sabato sera”. Riferimenti filmici contrastanti e confusi, che andavano da Sex & the City a Eyes Wide Shut di Kubrick, una buona referenza sulla Zagat nell’ambito della cucina asiatica (dalla quale per inciso a Manhattan è abbastanza difficile affrancarsi), un calcolato senso del rischio tipo occhi chiusi e naso turato, avevano prepotentemente lanciato la candidatura del Buddakan a Chelsea: c’era posto solo alle 10.30 pm. Affare fatto.

L’assembramento fuori dal locale, un andirivieni di taxi, i buttafuori e un lontano, attutito battito tambureggiante, avevano messo un po’ in ambasce il gurmé svelto a riposo, anche se la piccola preoccupazione finiva con l’annidarsi nei più reconditi meandri del cervelletto alla vista di impervi tacchi dodici e sciffonosi abiti lunghi che fasciavano inimmaginabili e inavvicinabili gnocche molto somiglianti, sotto l’effetto dell’euforia da Grande Mela, a qualche diafana Angelina Jolie o più facilmente a Beyoncé Knowles.

E sinceramente sarebbe bastato anche molto meno. Il cashmere girocollo appariva tremendamente datato, poco hip, per niente fun, a malapena chic, ma soprattutto, una volta entrati e investiti da un tir di musica techno pop a palla, apparivano dolorosamente provati i vetusti tìmpani del gurmé attempato che d’istinto rimpiangeva di non aver fermamente perseverato nella prima saggia scelta, il certamente più rilassante locale di cucina sojin.

Ma come diceva Nicola Di Bari il cuore è uno zingaro, e dopo il buio totale del bar, l’animo si ringalluzziva alla sommità della doppia scalinata lignea, lucida di lacche multicolori, a strapiombo sull’infernale salone, illuminato da grandi lampadari e attraversato da un unico, infinito tavolo. Con la luce, il gurmé ritrova equilibrio e contegno, e con aria sofferta scende le scale manco fosse Mister Big sotto braccio alla sua bella, per ripiombare a un tavolo buio, con vista sui fantastici candelabri e sull’onomatopeico affresco del “Bagno di Marte e Venere”, ma troppo vicino alla sala blu, una finta antica biblioteca, dove le angelinejolie e le beyoncé festeggiavano coi lustrini un qualche compleanno molto cool in compagnia dei loro nerboruti boy friends, non senza qualche schiamazzo in eccesso. Son giovani, pensò il gurmé, ormai accecato.

Passato quindi il primo attimo di smarrimento, trovato un faticoso accordo con la dolce signorina bionda che ci serviva, tenuta salda la barra del timone senza farsi travolgere dai flutti delle proposte alla carta che in allegria potrebbero spennare anche un russo versiliese disattento, gli occhi potevano soffermarsi sulla bella mise en place, sullo stile “armaniano” dell’arredo, sulle eleganti bacchette nere e sugli spot di luce bianca che illuminavano, con buona precisione, la grande tavola in legno, ovviamente nero.

Sembra che i dim sum siano cibo conviviale che letteralmente tocca il cuore: probabile, vista l’allegria con la quale sono spariti dalla tavola gli Edamame Dumplings, bei fagottini di pasta ripieni di una densa purea di verdi fagioli di soia (edamame), delicatamente adagiati in un brodo di scalogno e Sauternes, e ingentiliti da piccoli germogli.

D’improvviso gli animi si rasserenano corroborati da enormi piattoni di Crispy Calamari Salad, molto fogliame, molti calamari fritti e discreta presenza di anacardi croccanti, rinvigoriti da una vinaigrette a base di miso.

 

La musica sembrava già meno potente al principiare del giulebbe delle portate principali, in un vortice di piatti, ciotole, bacchette, forchette e birra Tsing Tao. Il gurmé è in serata di riposo, ma intuisce una cottura dell’Alaskan Black Cod meno puntuale del dovuto e una certa, eccessiva compostezza dei Jumbo Shrimps, pur apprezzando senza riserve il gusto, la facilità, la confidenza espressa da ogni entrée.

 

Soprattutto intrigava l’equilibrato contrasto ora tra la morbidezza del pesce e il morso croccante degli asparagi grigliati, ora tra la speziatura dei crostacei e l’aromaticità del riso immerso nel latte di cocco e spolverato di curry. Per poi ricominciare daccapo, mischiando e contaminando. Il dubbio che fosse tutto cinema mi ha sfiorato, anche con una certa insistenza: la ricostruzione sontuosa, le luci e il rumore ottundente certamente desensibilizzano, abbassano le difese, ma altrettanto certamente, al di là dei dettagli filologici della cucina proposta (il cui accertamento peraltro non rientrava nelle mie intenzioni, tantomeno nelle mie prerogative), non avrei immaginato una così divertente e ricca successione di sensazioni, di gesti, di sapori.

Lentamente la discoteca lascia spazio al ristorante, il rumore alla musica, la diffidenza alla partecipazione. E nel mastodontico mangificio da duecentocinquanta places, ogni tavolo vive serenamente la propria avventura. Anche con tracce di eleganza, che appaiono nei dessert curati da Vera Tong, pastry chef di primo piano approdata al Buddakan in autunno, in uscita dal sofisticato Dovetail. L’Almond Bread Pudding è ricchissimodi contrasti e affumicature tra caramello, banane e whiskey, mentre il Crying Chocolate sigilla la serata con un disegno ripreso pari pari da qualche pergamena rinvenuta nella Citta Proibita. Al gurmé in serata di riposo sfugge un sorriso al primo affondo della forchetta su quel dolce al cioccolato di pregevole fattura: pensa all’espressione del Pigna quando gli racconterà dell’ennesimo tortino al cioccolato in un ristorante di cucina cinese a New York.

Una lacrima di purissimo cacao esce lenta dal cuore della ganache, l’amaro tepore si fonde con un bellissimo gelato al tè al gelsomino. Una lacrima scorre furtiva sulla guancia del provato gurmé: non sapremo mai se per stanchezza, felicità, riso o improvvisa nostalgia.

Buddakan

75 9th Avenue, Chelsea, New York

 

Felicità: intermittente

Stupore: contagioso

‘A nuttata: ottima


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