
di Vittorio Guerrazzi
Più passo il tempo a bazzicare, talvolta abusivamente, nel mondo enoico e più mi convinco che, oltre ad una solida base scientifica, ad una vasta esperienza ed una buona dose di pazienza, per fare un vino interessante sono necessari anche istinto, empatia e cuore… molto più di una attrezzata struttura, di buoni legni o dell’ultimo ritrovato della tecnica.
È un po’ come in fotografia: la fotocamera più costosa, il maggior numero di megapixel, l’ottica più raffinata, non potranno mai sostituire l’occhio del fotografo e la sua capacità di scattare innanzitutto con la mente.
Penso così a Rino di Maggio e Tiziana Teodoro che proprio non ce la fanno a star lontani dal mondo di Bacco e continuano a portare avanti idee, percorsi e progetti, pur orfani di una “casa propria”.
Tra i vari progetti in essere, sono seguiti (e se vogliamo, a loro volta seguono) da un manipolo di affezionati e genuini viticoltori, conduttori di vigne per passione, mai per commercio o lucro, che non si accontentano di fare il vino solo tramite la vecchia ricetta di famiglia, ma sensibili ad un discorso di rispetto per i propri filari ed amore innanzitutto verso il proprio palato, preferiscono farsi seguire da una guida nel percorso che va dalla vigna al bicchiere.
Afferiscono così al progetto Unione Vignaioli Associati, nato nel 2005 nel garage di uno dei progettisti, essenzialmente in ambito del comprensorio dei Picentini e che conta ad oggi circa una ventina di affiliati, tra conduttori locali di piccole vigne di famiglia e amanti della natura che, non disponendo magari di una vigna propria, prendono in affitto alcuni filari messi a disposizione.
Il fascino del progetto è indiscutibile per diversi ordini di motivi: innanzitutto è innegabile il valore terapeutico e salutista di dedicarsi, anche solo per qualche ora a settimana, alla cura dei campi e quindi della vigna. Straordinario antistress, il rinnovare e rinsaldare il proprio legame con la natura, il doversi prendere cura di un organismo vivente durante l’intero ciclo vegetativo (la pota secca e quella verde, il diradamento e la cura della parete fogliare, ecc.) il tutto con i suoi tempi, i suoi modi e le sue pause, culminando poi nella festa della vendemmia: un impagabile balsamo per i ritmi frenetici quotidiani.
E ancora festa è l’imbottigliamento, in cui ci si aiuta vicendevolmente… nonché l’attesa quasi spasmodica del primo assaggio dalle bottiglie appena confezionate, rito che raramente si riesce a rimandare più di qualche settimana.
Il secondo aspetto essenziale è che non c’è l’assillo del mercato ad alitare sul collo, quindi non ha nessun senso “barare” o prendere scorciatoie per ottenere un prodotto più buono, che tende a fare il paio con più vendibile: la sfida è solo con se stessi e con le dinamiche e gli eventuali limiti dell’annata.
Ed ancora la cultura, la voglia di non restare legati a vecchi stereotipi ma di guardare avanti, allargare i propri orizzonti verso logiche che non appartengono alla tradizionale “produzione familiare”; di sostenere, se vogliamo, la crescita di un territorio, anche solo una piccola vigna alla volta.
Infine c’è un discorso, per me non secondario, di natura associativa e sociale: la capacità di mettersi insieme, di fare gruppo, squadra, senza alcun tipo di rivalità, se non magari quel pizzico di sana invidia quando, chi ti sta accanto è riuscito in qualche modo a fare un po’ meglio; invidia che però diventa stimolo a far meglio l’anno successivo.
E così ogni anno si rinnova il rito, a metà strada tra il tecnico e il goliardico, dell’assaggio dell’ultima annata pronta da bere (che senso avrebbe usare la classica formula “ultima annata in commercio”): in questo caso parliamo della 2011, annata dall’andamento non trascendentale, ma che non ha evidenziato particolari difficoltà.
Anche quest’anno si sono costituite 2 commissioni, una diciamo più tecnica, composta da Gennaro Reale (Enologo), Pasquale Mitrano (Patron e Vignaiolo dell’Azienda Case Bianche), Giuseppe Presutto (Agronomo e Sommelier) e, per mia fortuna, il sottoscritto; l’altra composta invece dagli stessi vignaioli, chiamati ad assaggiare i propri prodotti rigorosamente alla cieca: per la cronaca (ma veramente solo per questa) in testa si è classificato Baldassarre Fiorentino con consenso unanime delle 2 commissioni.
A seguire, in ordine decrescente: Tommaso Bartilomo, Francesco Santese, Gerardo Zoppo, Virgilio Vestuti, Valerio Falcone, Flavio Cibele ed Antonio Villecco.
I vini si presentavano naturalmente corretti, croccanti e vivaci nella loro irruente giovinezza, con acidità stimolanti, struttura ragguardevole, alcol a tratti ancora da integrare nella trama gustativa, ma comunque non disturbante, trama tannica, in alcuni campioni, da sgrossare con un po’ di bottiglia, ma che lascia presagire un interessante potenziale evolutivo.
Tutti vini monovitigno in ogni caso, da vitigni classici quali Aglianico, Sangiovese e Barbera, e altri che ormai possiamo tranquillamente definire autoctoni per i Picentini, anche se hanno nomi d’oltralpe quali Cabernet e Merlot.
Se di imprecisioni o sbavature vogliamo parlare, sono dovute più che altro alla giovane età e alla voglia di non strafare.
Al termine della degustazione tutti a cena nelle accoglienti sale della Divina Commedia di Giffoni Valle Piana, per commentare la performance del vicino, sfottersi un po’, e pensare dove intervenire in vigna l’anno prossimo per dare quel filo di eleganza in più.
Vi state chiedendo com’erano quei vini? Fatevi amico uno dei vignaioli e chiedetegli di invitarvi a cena: sarà l’unica occasione per assaggiarli.
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