La vite maritata al pioppo: l’Alberata Aversano ultima testimonianza di una viticultura antica

Pubblicato in: Curiosità

La complessa vendemmia dell'alberata (foto Alessandro Manna)

di Pasquale Carlo

Nulla succede a caso. È questo un principio valido soprattutto nelle trasformazioni del paesaggio disegnate dalle coltivazioni agricole. Oggi, se le alberate aversane costituiscono oramai l’unico esempio al mondo di coltivazione della vite maritata agli alberi (in prevalenza pioppo, più raramente olmo) questo, ovviamente, non è un caso.

Parliamo di un sistema di allevamento che segnava significativamente i paesaggi di quasi tutte le regioni italiane: all’alba del Novecento, il direttore della Scuola di viticoltura e di enologia di Alba, Domizio Cavazza, scriveva che l’alberata – con tutte le  differenze tecniche che assumeva nei vari luoghi – occupava più di mezza Italia, dal Basso Piemonte fino alla Campania. Eppure era da decenni che questa pratica era finita sotto la scure degli studiosi e degli enologi, che rappresentava un retaggio del sistema colonico, per cui i contadini volevano produrre tutto quello di cui si aveva bisogno, e che era colpevole di dare un «vino che potrà uscire discreto, ottimo non mai; ma in molti casi esso sarà appena tollerabile e facile a guastarsi».

L’Asprinio e la vite maritata

Evidentemente, tutto questo era vero per tutti gli angoli d’Italia. Dappertutto, tranne che nell’agro aversano, dove la coltivazione delle uve asprinio e, soprattutto, la loro trasformazione in quel “grande piccolo vino” che conquistò al primo sorso Mario Soldati, furono oggetto di tecniche migliorative tali da far diventare l’Asprinio uno dei vini italiani più conosciuti e venduti sui mercati esteri nel periodo che va dall’inizio del commercio ferroviario  (grazie all’apertura dei trafori del Brennero e del San Gottardo) alla grande crisi economica del 1929.

Tutto questo è stato possibile soprattutto grazie alla feracità di queste terre. Un suolo fertilissimo, con l’agricoltura che ha costituito per tantissimi secoli la vera ricchezza di quest’angolo di Terra di Lavoro che rappresentava il cuore della Campania Felix. Qui, l’utilizzo della vite maritata non rappresentava solo un modello di coltivazione, ma  un esempio di consociazione produttiva: si produceva uva, legna da ardere in vicinanza di quella che fino al Novecento era l’unica vera grande metropoli italiana, foglie da utilizzare come foraggio per allevamenti di eccelsa qualità e tanto altro ancora, considerato che nel bel mezzo di facevano rotazioni tra foraggi e la canapa.

Con le nuove tecniche, la qualità del vino crebbe, lasciandosi alle spalle lo sferzante giudizio espresso nel Cinquecento dal toscano Francesco Redi («Quell’asprino d’Aversa, che non so se agresto o vino»), con il vino che conquistò i mercati francesi (diventando lo “champagne napoletano”) quando le vigne d’Oltralpe vennero distrutte dalla fillossera, e, successivamente il mercato austro-ungarico e quello svizzero. Nel frattempo, continuò ad essere l’unico vino bianco amato dai napoletani, che ne facevano scorpacciate soprattutto nel corso dell’estate, con l’apoteosi durante la festa della Piedigrotta. Un vino  profondamente legato all’essenza dei napoletani, tanto da essere sempre citato, da Giambattista Basile a Edoardo Scarpetta.

Gli uomini e le storie di questo straordinario percorso dell’Asprinio sono ritornate alle luce grazie ad una ricerca condotta nell’ambito del progetto conservazione e valorizzazione delle alberate aversane e delle viti maritate a pioppo ‘Istituzione di un repertorio consortile’, che vede come direttore scientifico Nicola Matarazzo. L’iniziativa, promossa dal Consorzio tutela vini ViTiCa presieduto da Cesare Avenia, mira alla promozione, tutela e valorizzazione  delle alberate. Nell’ambito del progetto, con il contributo degli agronomi Gaetano Pascale e Vincenzo Molitierno, sono state definite le caratteristiche tecniche per la costituzione di un repertorio storico produttivo delle alberate ricadenti dell’area di produzione del vino a denominazione di origine ‘Aversa’. In merito, si sta ragionando sull’età minima delle piante, sui sostegni delle alberate e sulle altezze minime. Il tutto per lavorare, in prospettiva, su tre fronti, al fine di tutelare questa tecnica di coltivazione straordinaria: sostenibilità, sicurezza sul lavoro, promozione e valorizzazione.

Alberata agricoltura sostenibile

L’intento è quello di superare la visione di risorsa museale e guardare alle alberate aversane come forma di viticoltura sostenibile, modello vivente sintesi di quanto sancito dall’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino, perché capace di coniugare «la longevità economica delle strutture e dei territori» con «l’ottenimento di prodotti di qualità» e «la valorizzazione degli aspetti patrimoniali, storici, culturali, ecologici ed estetici».

 


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