Il critico deve criticare per gli chef o per i lettori? E poi: basta classifiche!

Pubblicato in: Polemiche e punti di vista

Stefano Bonilli

Sono due anni ormai che Stefano Bonilli non è più con noi. Lo scorso anno abbiamo chiesto a Maurizio Cortese un ricordo di Bonilli. Quest’anno il pezzo di Marco Lungo penso sia un buon modo di ricordarlo visto che tanti suoi temi ritornano.

di Marco Lungo

E’ un bel po’ che mi faccio questa domanda: chi fa le critiche, per chi critica, chi è il suo obiettivo, a chi vuole rendere un servizio?

Non so, amici, però leggendo spesso le critiche che trovo in giro e leggendole così, con la chiave di lettura della domanda di cui sopra, quasi sempre non trovo l’obiettivo.

Penso che, come credo tutti voi, la critica debba servire a far comprendere meglio agli altri, ai molti altri, aspetti che normalmente sfuggirebbero, fare valutazioni di livello più elevato, inquadrarle in contesti più ampi, semplificarne le complessità, renderne fruibili ai molti di cui sopra i contenuti ed il linguaggio, esprimendo poi al termine una personale valutazione, in quanto persona che ha analizzato il fenomeno più a fondo e non come potrebbe fare un qualsiasi fruitore occasionale e limitato nel tempo. Ecco, secondo me l’obiettivo della critica dovrebbe essere i “molti altri”, i “fruitori occasionali”.

Ed è così, oggi? La mia risposta è no.

Leggo infatti critiche che spesso sono quasi una autocelebrazione di chi le scrive, un autoincensarsi, oppure diventano un coacervo di sinonimi o neologismi, o sono espresse in un linguaggio, no, meglio, proprio con frasi incomprensibili ai più, o si distraggono dall’oggetto della critica, perdendosi in rivoli di aspetti secondari.

Ci sono recensioni che sono sommi arzigogoli dell’arte dello scrivere che, alla fine, fanno allontanare ancora di più chi legge o lo pongono in una specie di sudditanza psicologica in quanto non capisce, non comprende, quindi è “inferiore”, veri e propri saggi letterari degni di ben altro palcoscenico che non di fronte ad un piatto di pasta.

Critiche che scivolano e indugiano su arredi, su luci, su colori, su sedie e tovaglie, come se questo debba essere importante o, meglio, come se non lo sia quando andiamo in un locale normale, dove invece si può mangiare anche in un ambiente più che scadente, visto che pare che solo ad alto livello il contorno deve essere degno di ciò che si serve, coerente con il piatto in tavola e con il vino che si beve.

A volte l’esame scivola e si ferma troppo sulla persona, sul suo vissuto o sul suo carattere, come se a tutti importasse se chi cucina è più o meno simpatico, più o meno colto. Aspetti secondari, che semmai con alcuni assumono elemento di conferma del tipo di cucina, che però spesso diventano primari, quasi a voler far aumentare la credibilità e lo spessore del critico quando egli si mostra “amico intimo” del criticato di turno.

E poi la lunghezza, la prolissità di certe critiche (senti chi parla, direte voi…), tali da far perdere e confondere il lettore in cerca di informazioni, scritti che sono avvitati su sé stessi e si arrovellano e si divellano, lasciando spesso attoniti tipo come se si stesse guardando un quadro di Picasso, solo che il critico non è Picasso.

Inoltre, altro aspetto fondamentale, la missione.

Per me il critico deve scovare nuovi talenti, non continuare a lodare i soliti noti.

E’ il lavoro più impegnativo, più difficile, quello che per una bella sorpresa regala tante delusioni ma, senza di questo, il mondo enogastronomico sarebbe oggi una foto in bianco e nero colorata con Photoshop. Ed è proprio questa missione che a mio avviso si è persa parecchio, da tempo, proprio come mentalità diffusa nella critica. Abbiamo, come è vero, delle Guide, la cui credibilità però si è piuttosto affievolita nel tempo a causa di eventi come recensioni a posti chiusi da tempo, o sospetti di condizionamento operato dagli sponsor pubblicitari o, più semplicemente, possibile piatto di minestra gratis per il recensore o cose del genere. In esse, comunque, il lavoro di scouting si è affievolito da tempo, anche se qualche barlume di luce in tal senso recentemente si è notato.

Per il resto, da quando è esploso il fenomeno del foodblogging, ormai enorme nuvola grigia che si frappone tra la realtà del locale ed il consumatore, nella maggior parte dei casi del tutto inadatta al ruolo (ma che con un po’ di like / seguito, indotto o condotto, fan nascere legittimazioni del tutto illegittime), arrivare alla verità su di un locale è diventato difficilissimo.

Ecco quindi che, in un coacervo di critici egoici e di massaie allo sbaraglio, lo strumento di maggior successo oggi è La Classifica. Sì, amici, perché la classifica non crea problemi a chi legge, è immediata, oggi la gente non vuole pensare, vede un numero, è quello, è il primo, è il secondo, è l’ultimo locale. Assistiamo perciò da tempo ad un fiorire di classifiche di tutti i tipi ed in tutte le salse che, proprio perché gradite dal pubblico mentalmente pigro, aumenta gli accessi al sito, valore d’oro per rimediare da sponsorizzazioni danarose sul proprio blog, alla considerazione delle massaie annoiate amiche della foodblogger.

E la classifica, ancor peggio delle guide, è spesso sottoposta nell’essere stilata con motivi che esulano la valutazione reale, per cui si leggono per esempio classifiche in cui ai primi tre posti, variamente distribuiti, ci sono i soliti tre più noti (anche se oggi fanno schifo), poi al quarto e quinto posto ci sono spesso gli “amici” da cui si rimedia il piatto di minestra e, dal sesto al decimo posto, ci finiscono nomi spesso presi a caso da internet. Già, perché purtroppo nel tempo troppe volte mi è capitato di leggere classifiche di questo tipo, frutto di copia e incolla vergognosi che manco una parola che una è stata cambiata dal “redattore”, “classifiche” spudoratamente compilate da casa, al computer, altro che visite in loco. Per fortuna in alcune testate ed in alcuni giovani la voglia di comportarsi eticamente c’è e stanno facendosi vedere però, su tutto, va detta una cosa: spesso siamo solo noi che viviamo in questo ambiente che li notiamo mentre invece, e purtroppo, grazie a fenomeni tipo l’interposizione della nuvola grigia di cui sopra, che tutto eguaglia e confonde, non è detto che l’informazione corretta arrivi al consumatore, il quale può avere modalità di accesso ben diverse dalle nostre, vittime appunto come siamo di fissità funzionali. Però, ecco, un buon SEO in questo fa miracoli, però non tutti hanno elementi validi anche in questo settore o non lo considerano con l’importanza assoluta che ha oggi.

In tutto ciò, non mi stupisco che TripAdvisor sia diventato un riferimento “serio” per chi cerca un buon posto dove andare a mangiare. Non è redatto da critici blasonati ma lascia spazio ai tanti laureati in Masterchef, ha la forza della statistica che fa sì che più recensioni ci sono di un posto, più la valutazione riportata da Trip corrisponda alla realtà. Adesso poi che hanno strutturato il sistema in ristoranti raffinati e ristoranti economici, ad esempio, qualcosa di più attendibile esce sicuramente, tanto che è facilissimo trovare posti, osannati dalla critica di cui sopra, umiliati pesantemente dai clienti sul portale. TripAdvisor è semplice da capire e dice al consumatore una cosa fondamentale, quello che lui chiede in fondo in fondo, la domanda a cui la critica “superiore” si dimentica spesso di rispondere: “Ma lì, come si mangia?”.

Ecco, “Lì, come si mangia?”. Basterebbe non dimenticarsi, tutti noi che si opera in questo mondo, che la domanda importante è questa, è quella per cui ci siamo messi in giro per posti in tanti anni, ne abbiamo scritto, ci siamo ritornati per il gusto personale o li abbiamo consigliati agli amici.

“Lì, come si mangia?”.

Forse è la domanda più semplice a cui Stefano Bonilli voleva prima di tutto rispondere, quando scriveva.

 


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