Critiche e degustatrici: il vino italiano al femminile 4| Elena Erlicher

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Elena Erlicher

di Chiara Giorleo

Crescono il numero e la fama delle donne assaggiatrici di vino. Esiste per davvero un approccio “femminile” alla critica del vino o al suo racconto e, nel caso, come si distingue?
Come membro dell’Associazione italiana nazionale Le Donne del Vino mi rivolgo alle critiche di vino in Italia per saperne di più.

Oggi lo chiediamo a Elena Erlicher

Nata a Milano. Studi classici e una laurea in Filosofia all’Università di Milano. Ha lavorato per Class Editori (Milano Finanza e Italia Oggi). Nel 2005 entra a Civiltà del bere e diventa giornalista professionista. Continua a collaborare con la rivista e con altre testate (Focus Storia, Cotto e mangiato) e siti del food&beverage. Nel 2015 ritorna nella redazione di Civiltà del bere, di cui diventa coordinatrice. Certificata Wset Level 3 Award in Wines del Wine & Spirit Education Trust, tra i maggiori fornitori di educazione al vino al mondo, e giudice di concorsi in Italia e all’estero.

Quando e come nasce il tuo amore per il vino?

Il vino è sempre stato nella mia vita. I miei genitori hanno una grande passione per la buona tavola, e me l’hanno trasmessa fin da subito. A casa si mangiava bene, si sceglievano prodotti di qualità e ci piaceva ogni tanto andare fuori al ristorante. Ho sempre avuto l’impressione che l’amore per il vino facesse parte del mio Dna. Una frase che ricordo di mio nonno, che per me è stato un saldo punto di riferimento, era: «Bevo vino perché bere acqua fa ruggine!». Mio nonno era ingegnere, ma era nato e cresciuto in quell’ambiente contadino in cui il vino si serviva a colazione come bevanda energetica per affrontare la giornata di duro lavoro nei campi.

Un altro bel ricordo legato al vino risale a quando, ventenne, io e il mio migliore amico, che allora faceva il corso per sommelier Ais, ce ne andavamo lungo il naviglio della Martesana, nelle sere d’estate, con una buona bottiglia e la valigetta dei bicchieri e degli attrezzi del mestiere. E cercavamo una panchina per imbandire la nostra serata di degustazioni e parole.

A tuo avviso, come e quanto credi sia evoluta la critica del vino negli ultimi 20 anni?

Vent’anni sono un po’ più di quelli che io ho passato professionalmente nel mondo del vino. Posso dire, però, che quando ho cominciato a lavorare in questo settore e sono entrata nella redazione di Civiltà del bere la critica enologica era già ampiamente evoluta. Luigi Veronelli era da poco scomparso. Erano poi già all’apice della carriera anche personaggi tutt’ora influenti come Daniele Cernilli, Gianni Fabrizio, Fabio Giavedoni…

Negli anni successivi, ahimè, la crisi editoriale ha colpito anche il settore della critica enologica e, giocoforza, è cominciato un periodo di “involuzione” che ha portato alcuni nomi noti a uscire dalle guide, se non a cambiare mestiere. Una delle ultime importanti defezioni, per esempio, è stata quella di Eleonora Guerini, che è uscita dalla redazione del Gambero per intraprendere la strada assai diversa della consulenza aziendale, confermando ancora una volta la crisi del nostro settore, che permette sempre meno ai professionisti della critica enologica di vivere esclusivamente di questo mestiere.

Quali sono i tuoi riferimenti?

Oltre ai nomi che ho già citato, ci sono altri colleghi con cui ho avuto il piacere di lavorare o che ho incontrato durante viaggi di lavoro, e con i quali ho avuto un confronto proficuo. Ad esempio Giampaolo Gravina e Aldo Fiordelli. Se penso a chi ha un approccio più internazionale alla critica, mi vengono in mente Paolo Basso (miglior sommelier Asi), Monica Larner (The Wine Advocate) e Ian D’Agata. Infine non posso non citare Alessandro Torcoli, il direttore di Civiltà del bere, che mi incoraggia sempre a formarmi e migliorare. “La memoria è un muscolo come quelli delle gambe”, scriveva Umberto Eco a suo nipote, “se non lo eserciti si avvizzisce”. Per questo è importante non smettere mai di studiare.

Credi che l’approccio alla degustazione cambi tra uomo e donna?

No, in realtà credo che questo sia un po’ un luogo comune. Per esempio, si pensa che le donne siano più attente ai profumi o che diano giudizi più severi. La percezione olfattiva è il risultato di processi fisiologici, cognitivi e psicologici. Un odore diventa tale solo quando viene rielaborato nella nostra testa. Non c’è esperienza più soggettiva di quella degustativa, in un certo senso; la genetica c’entra poco. Tutto questo, però, non può prescindere dal fatto che la critica enologica richiede una seria preparazione, una solida competenza e lunga pratica.

Per quanto riguarda poi la severità di giudizio, conosco critici uomini severissimi.

E come cambia l’approccio ai social e/o al modo in cui il vino si racconta nonché alla formazione di settore?

Sui social e, più in generale, sul web hanno voce e seguito anche tutti coloro che esperti di vino non sono. Ma non penso sia utile scagliarsi contro determinate categorie, come quelle di influencer e blogger, che fanno il loro mestiere. Bisogna riconoscere che finora chi ha avuto padronanza del mezzo social ha trovato spazio, pur non proponendo contenuti di qualità. A chi, invece, è in grado di offrire contenuti di qualità, ora, spetta il compito di proporli imparando ad avere padronanza del mezzo social. Inutile ergersi a giudici. Ed è pur vero che il senso di un’epoca lo si scopre quando un’epoca finisce, come la “nottola di Minerva che inizia il suo volo sul far del crepuscolo” (metafora di Hegel sulla filosofia, che arriva solo “dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta”).

Per noi donne, poi, utilizzare i social a livello professionale può rivelarsi un’arma a doppio taglio, che se da un lato permette più visibilità, dall’altro può minare la credibilità. Bisogna saper gestire questi mezzi. Che una donna, per esempio, possa pensare che esporre parti del suo corpo al pubblico social sia proficuo per il proprio lavoro è mera utopia. Anzi, è vero il contrario. Ma purtroppo se ne vedono innumerevoli esempi ogni giorno. Anche se io conosco personalmente e apprezzo tante giovani colleghe preparate a cui non ho mai visto fare cose simili, come Erika Mantovan, Leila Salimbeni, Tarsia Trevisan o la nostra Jessica Bordoni.

Per quanto riguarda la formazione, penso che le donne siano sempre pronte a studiare e approfondire per migliorarsi. E anche a trasmettere quanto hanno appreso. L’ultima volta che sono stata a Madrid come giudice di un concorso, mentre preparavo contestualmente un mio esame per il Wset, mi sono trovata circondata da un clima di grande solidarietà, dove tante colleghe straniere già diplomate si sono offerte di aiutarmi nello studio.

Chi vedi nel futuro della critica enologica?

Qualche nome l’ho fatto qui sopra e potrebbero venirmene in mente ancora pochi altri, in verità. Questo non per cattiva volontà da parte delle nuove generazioni, che anzi sono interessatissime al vino e hanno a disposizione un ampio bacino (forse anche fin troppo) di corsi di formazione tra cui poter scegliere. Il problema del settore, lo ribadisco, è la continua “emorragia” di forze nuove e meno nuove che non riescono ad accedere alla professione o l’abbandonano a causa di una crisi editoriale che non demorde.

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