Cucina Napoletana, appunti di storia. L’invenzione della pasta: Doje allattante e tre calibbarde. Il compimento di una metamorfosi

Pubblicato in: Curiosità

di Maurizio Paolillo             

L’esplosione demografica del ‘600 e il tramonto della foglia

Nel secolo XVII il Regno di Napoli era parte integrante nonché componente fondamentale della Monarchia Universale spagnola, lo stato più potente dell’epoca. Napoli, sede del Viceré di Spagna, ne rappresentava uno dei centri di massima importanza.

Il grande sviluppo economico e culturale fu accompagnato da una vera e propria esplosione demografica: in quegli anni Napoli si espanse fino a divenire una delle metropoli più densamente abitate al mondo. La sua popolazione, a metà del Seicento, superava le 400.000 anime; Venezia, capitale di un vero e proprio impero mercantile, ne contava 180.000 e Parigi circa 380.000.

Fino ad allora il fabbisogno alimentare del popolo basso era stato adeguatamente soddisfatto con alimenti di origine vegetale, la cosiddetta foglia. Ciò era consentito dalla straordinaria fertilità degli orti vesuviani alle porte della città, e degli orti urbani, quelli compresi all’interno delle mura cittadine. Entrambi contribuivano in maniera determinante ad alimentare gli innumerevoli mercati dove il popolo si approvvigionava quotidianamente.

La crescita demografica e urbanistica sottrasse ingenti superfici agli orti urbani, mentre l’ampliamento della cinta muraria ridusse notevolmente anche le estensioni di quelli più strettamente a ridosso della città.

Pertanto si dovette far riferimento a centri di produzione agricola decisamente più distanti, cosa che però rendeva molto più complicato far giungere in città i prodotti agricoli freschi, soprattutto in considerazione della rete dei trasporti dell’epoca.

Le necessità di una popolazione in prorompente crescita non potevano più essere appagate col solo ricorso alla foglia.

 

L’invenzione della pasta a Napoli

Per affrontare la crisi alimentare il primo espediente era a portata di mano: sostituire una merce acquosa, povera e facilmente deperibile con una merce più ricca, secca e quindi conservabile a lungo, il grano.

La soluzione definitiva, però, fu un’invenzione che determinò una svolta nei costumi alimentari dei napoletani e nella loro storia sociale: il torchio meccanico. Una macchina denominata a Napoli emblematicamente ‘o ‘ngegno, l’ingegno.

Il suo impiego, documentato a Napoli già dalla prima metà del Seicento, unitamente all’introduzione delle trafile, comprimeva enormemente l’impiego di manodopera e i tempi di lavorazione, determinando il drastico abbassamento dei costi di produzione dei maccheroni e l’incremento della loro produzione industriale. Il lavoro di una miriade di botteghe artigiane si trasformava così in attività protoindustiale.

Collegato allo sviluppo delle tecnologie di produzione era il calo dei prezzi medi della pasta, in particolare di quelli della cosiddetta pasta d’assisa[1], che negli anni successivi al 1635 scesero di circa il 20%.

È necessario considerare che i grani per la produzione della pasta secca non fossero quelli teneri, comunemente usati in panificazione, bensì quelli duri ben più ricchi di glutine, una proteina vegetale ad alto valore nutritivo. I grani duri erano prodotti in abbondanza nelle provincie interne, Abruzzo, Sannio, Irpinia, Lucania, Puglia.

Di conseguenza la pasta poteva sostituire non solo il volume della razione alimentare in passato fornita per lo più dalla foglia, ma anche la componente energetica e funzionale che, fino ad allora, era stata garantita dalla carne bovina e suina, seppur nei suoi tagli più poveri. Il condimento della pasta con il formaggio assicurava anche un modesto ma adeguato apporto di grassi e un’integrazione del contenuto proteico, costituendo a tutti gli effetti un pasto povero ma completo.

I maccheroni diventavano non solo un alimento di largo consumo, bensì il fondamento dell’alimentazione popolare, diffuso al punto di identificare a pieno titolo i costumi e i comportamenti di un intero popolo.

[1] A Napoli, a metà Cinquecento le magistrature incaricate dell’approvvigionamento urbano e del controllo dei prezzi distinguono la «pasta bianca» di prima scelta e la cosiddetta – «pasta d’assisa», che corrisponde alla qualità ordinaria e che ha prezzo inferiore (S. Serventi, F. Sabban, La pasta. Storia e cultura di un cibo universale)

 

Il maccaronaro

In questo periodo si diffonde una nuova figura che resterà emblematica: il Maccaronaro, un venditore ambulante che si aggirava tra i vicoli della città spingendo un carretto con un grande pentolone in cui bolliva costantemente l’acqua.

Allo stesso modo comparvero una miriade di improvvisate osterie che allestivano per strada il loro banchetto per la preparazione e la vendita dei maccheroni.

La professione del maccaronaro nasceva dalle necessità del popolino che, date le condizioni di indigenza, poteva assicurarsi, con una modica somma, un piatto gustoso e sufficientemente nutriente. Un mestiere che rappresenta, quindi, l’ennesima espressione dell’ingegno creativo di un popolo, che, con un’efficace espressione, Gianpaolo Di Gangi ha definito il genio della necessità[1].

[1] Cfr Gianpaolo Di Gangi, opera citata in bibliografia                                                                                        .

I formati più comuni erano quelli a trafila lunga, più o meno spessi, assimilabili agli attuali vermicelli, che venivano serviti in semplici piattelli di stagnola. Per consumarli era necessario tenere il viso rivolto verso l’alto e introdurne una piccola quantità nella bocca spalancata, prelevandola dal piatto senza l’ausilio della forchetta ma utilizzando le dita. Ecco spiegato perché – citando Raffaele Bracale[1]– «’e maccarune se magnano guardanno ‘ncielo![2]» (I maccheroni si mangiano guardando in cielo).

I maccaronari offrivano al prezzo di due soldi[1] il loro prodotto condito con solo formaggio pecorino che insieme all’acqua di cottura formava un condimento lattiginoso; era ‘o doje allattante.

Una consuetudine testimoniata anche da Matilde Serao nel suo celebre Il ventre di Napoli[2]:

«Appena ha due soldi, il popolo napoletano compra un piatto di maccheroni cotti e conditi; tutte le strade dei quartieri popolari, hanno una di queste osterie che installano all’aria aperta le loro caldaie, dove i maccheroni bollono sempre, i tegami dove bolle il sugo di pomidoro, le montagne di cacio grattato, un cacio piccante che viene da Cotrone[3].

[…] Questi maccheroni si vendono a piattelli di due e di tre soldi; e il popolo napoletano li chiama brevemente, dal loro prezzo: nu doie e nu tre».

I maccheroni furono venduti per strada conditi solo con formaggio per tutto il sei e settecento. La grande innovazione, il pomodoro, che in seguito divenne la modalità ordinaria di consumarli, nonché la rappresentazione più tipica dei costumi napoletani, venne introdotta molto più tardi. Infatti i frutti provenienti dal Nuovo Mondo giunsero in Campania dal Perù intorno al 1770, come dono al re di Napoli Ferdinando IV.

La pianta venne inizialmente considerata solo per il suo valore ornamentale, ma le sue qualità nutrizionali e la sua versatilità gastronomica furono presto comprese. Fu proprio il re a favorirne la coltivazione nel territorio dell’Agro Sarnese-Nocerino, intorno alla località di San Marzano, che darà il nome alla pregiata varietà. Grazie alle favorevolissime condizioni pedoclimatiche della zona, trovò subito il suo ambiente ideale e la diffusione fu estremamente rapida. Si diffuse di conseguenza l’uso di consumare e di servire per strada la pasta non più semplicemente condita con formaggio e pepe, bensì anche con salsa di pomodoro, come testimonia il passo citato di Matilde Serao.

Fu dopo la nascita dello stato unitario e dopo che la figura dell’Eroe dei Due Mondi acquisì grande popolarità, la nuova pietanza fu battezzata ‘o tre calibbarde, in riferimento al rosso delle camicie dei garibaldini, a un costo appunto di tre soldi.

[1] Il soldo era la moneta d’argento italiana fin dalla fine del XII secolo. Con l’introduzione della lira napoleonica, il soldo divenne pari a 5 centesimi, quindi 20 soldi formavano una lira. Con la formazione dello stato nazionale non furono più coniate monete con questa denominazione, ma il termine rimase in uso fino alla seconda guerra mondiale.

[2] Matilde Serao, Il ventre di Napoli, Fratelli Treves Editori, Milano, 1884

[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Distretto_di_Cotrone

 

L’industria della pasta

L’esplosione della domanda di pasta in città stimolò la proliferazione di una serie di piccoli opifici protoindustriali distribuiti su tutto il territorio cittadino.

La loro diffusione a Napoli era però fortemente ostacolata dalla disciplina delle corporazioni artigiane che nella capitale era particolarmente rigida e di fatto impediva la crescita del settore. La manifattura dovette necessariamente trovare altri spazi e si localizzò nelle zone dove erano concentrati i mulini. Le più idonee si rivelarono la Costiera Amalfitana, tra Amalfi e Vietri sul Mare, e soprattutto l’area tra Gragnano e Torre Annunziata. Zone dove erano concentrati un gran numero di mulini ad acqua localizzati lungo l’alveo di fiumi che assicuravano l’energia necessaria a muovere  le pesanti macine. Questa situazione si protrasse immutata fino alla metà dell’ottocento quando si contavano 27 tra molini e pastifici a Gragnano e 73 a Torre Annunziata[1].

La nascita dello stato unitario coincise con una serie di modificazioni nell’organizzazione del settore. Da un lato la politica economica del neonato stato unitario mise in grossa difficolta i mulini campani con l’introduzione di una nuova tassa governativa sul macinato. Dall’altro lato, l’introduzione dei laminatoi e dei mulini a cilindro alimentati a vapore svincolò l’attività molitoria dalla presenza dei corsi d’acqua quali fonti energetiche, favorendone la localizzazione in area urbana.

A Torre Annunziata, sorsero i primi grandi complessi industriali, che non essendo più legati all’attività dei mulini ad acqua, nel giro di pochi anni invasero completamente la città. A Gragnano la produzione rimase affidata in prevalenza ai piccoli pastifici che, però, riuscirono a mantenere il primato qualitativo nella manifattura delle paste, specializzandosi sui formati lunghi.

«Chi non ha sentito parlare dei maccheroni di Gragnano? Fatevi una giratina per queste straducole, e non vedrete altro che maccheroni e paste, paste e maccheroni di tutte le forme, di tutte le grandezze, e di tutte le qualità, messe lì ad asciugare per terra su grandi coperte, su lunghi pali fuori le balconate, sulle terrazze, dinanzi alle case, dinanzi alle botteghe».[2]

Gli anni che vanno dal 1880 alla prima guerra mondiale costituiscono il periodo d’oro dell’industria della pasta nel distretto Torre Annunziata/Gragnano. Nel 1891, sulle 213 fabbriche attive nella provincia di Napoli, 102 sono localizzate nel comune di Torre Annunziata (48% del totale provinciale), 66 in quello di Gragnano (31%) e le rimanenti 37 ripartite in 12 comuni.

Il periodo aureo sarà seguito dalla progressiva decadenza del distretto. Negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale le imprese sopravvissute ai disastri del conflitto non riuscirono a competere con le grandi imprese del Nord, a causa soprattutto del mancato rinnovamento tecnologico.

Ciononostante la centralità acquisita dal settore pastaio a Napoli e nell’Italia Meridionale, non solo nell’economia ma anche nell’organizzazione sociale, favorì la costruzione dello stereotipo dei napoletani come Mangiamaccheroni interpretato attraverso un’oleografia consolidata e non scalfibile nel tempo. La maschera di Pulcinella sempre rappresentata mentre mangia spaghetti, oppure il personaggio di Totò in Miseria e Nobiltà che prende i maccheroni con le mani e li introduce nelle tasche sono rappresentazioni iconografiche di una realtà costruita nel corso dei secoli e che neanche la ridefinizione del tessuto produttivo nazionale ha potuto scalfire.

[1] Paola Gargiulo – Lea Quintavalle, L’industria della pastificazione a Gragnano e Torre Annunziata, in AA.VV. Manifatture in Campania: dalla produzione artigiana alla grande industria, Guida, Napoli, 1983.

[2] Cesira Pozzolini Siciliani, Napoli e dintorni. Impressioni e ricordi, Vincenzo Morano Editore, Napoli, 1880

 

Nota – Il presente lavoro costituisce il completamento del racconto iniziato con il precedente
Da mangiafoglie a mangiamaccheroni. Storia della straordinaria metamorfosi partenopea.

Bibliografia

  1. Giuseppe Galasso, La storia del regno di Napoli, UTET, Torino, 2008
  2. Juan-Pablo Di Gangi, Il genio della necessità. Una storia della cucina napoletana, in Porthos 28, Porthos Edizioni, Roma, 2007
  3. Massimo Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Laterza, Bari, 2006
  4. Emilio Sereni, Note di storia dell’alimentazione del Mezzogiorno: I napoletani da mangiafoglia a mangiamaccheroni, Argo, 1998 (1° edizione: in “Cronache meridionali”, 1958)
  5. Franco La Cecla, La pasta e la pizza, il Mulino, Bologna, 1998
  6. Silvano Serventi, Françoise Sabban, La pasta. Storia e cultura di un cibo universale, Editori Laterza, Roma, 2011
  7. CISPAI (Centro Interuniversitario di Studi e Ricerche sulla Storia delle Paste Alimentari in Italia), Fonti e risorse documentarie per una storia dell’industria delle paste alimentari in Italia, a cura di Stefano D’Atri, Gechi Edizioni, Milano, 2017
  8. AAVV, Manifatture in Campania: dalla produzione artigiana alla grande industria, Guida, Napoli, 1983
  9. Stefano d’Atri, Tra sapere e sapori. I viaggiatori alla scoperta della Campania ottocentesca [in AAVV, La città, il viaggio, il turismo. Percezione, produzione e trasformazione, CIRICE (Centro Interdipartimentale di Ricerca sull’Iconografia della Città Europea), Università degli Studi di Napoli Federico II, Napoli, 2017]

[1] A Napoli, a metà Cinquecento le magistrature incaricate dell’approvvigionamento urbano e del controllo dei prezzi distinguono la «pasta bianca» di prima scelta e la cosiddetta – «pasta d’assisa», che corrisponde alla qualità ordinaria e che ha prezzo inferiore (S. Serventi, F. Sabban, La pasta. Storia e cultura di un cibo universale)

[2] Cfr Gianpaolo Di Gangi, opera citata in bibliografia                                                                                        .

[3] Raffaele Bracale (Napoli 1945 – 1922), ha operato attivamente in svariati campi della cultura, dalla pittura alla fotografia, dalla narrativa alla poesia, al teatro. È stato un grande esperto di cultura, lingua, tradizioni e cucina napoletana.

[4] http://lellobrak.blogspot.com/2011/09/e-maccarune-se-magnano-guardanno-ncielo.html

[5] Il soldo era la moneta d’argento italiana fin dalla fine del XII secolo. Con l’introduzione della lira napoleonica, il soldo divenne pari a 5 centesimi, quindi 20 soldi formavano una lira. Con la formazione dello stato nazionale non furono più coniate monete con questa denominazione, ma il termine rimase in uso fino alla seconda guerra mondiale.

[6] Matilde Serao, Il ventre di Napoli, Fratelli Treves Editori, Milano, 1884

[7] https://it.wikipedia.org/wiki/Distretto_di_Cotrone

[8] Paola Gargiulo – Lea Quintavalle, L’industria della pastificazione a Gragnano e Torre Annunziata, in AA.VV. Manifatture in Campania: dalla produzione artigiana alla grande industria, Guida, Napoli, 1983.

[9] Cesira Pozzolini Siciliani, Napoli e dintorni. Impressioni e ricordi, Vincenzo Morano Editore, Napoli, 1880


Dai un'occhiata anche a:

Exit mobile version