Fabrizio Scarpato e Francesco Guccini, dialoghi tra la via Emilia e il Far West

di Fabrizio Scarpato

Recensione sotto forma di intervista al libro ove si parla di sogni, ricordi, osterie

Il mulino
La casa sul confine dei ricordi,
la stessa sempre, come tu la sai
e tu ricerchi là le tue radici
se vuoi capire l’anima che hai …

Tornare alle radici, alla casa della tua infanzia, elencando buonissime cose da mangiare non è un esercizio sterile: affonda nella tenerezza della nostalgia e nell’enfasi del mito del mulino di Pàvana.

Coniglio arrosto, funghi fritti, prosciutto affettato di coltello, salsiccia sott’olio, il formaggio sardo, il pane cotto nel forno a legna, i tortellini di Natale; insalata e pomodori dell’orto, cipolle, piselli, prezzemolo, basilico, patate, fagioli; nei campi ciliegie, per le marmellate, mele, che d’inverno profumavano le camere da letto, pere, noci, susine, fichi e uva americana. Nel poderetto il grano, il granoturco, il latte, le panne maestose, il burro in bottiglia; nel fiume pesci e gamberi, e origano sugli argini; nel bosco le castagne, i porcini, gli ovoli, i galletti, le fragole e i mirtilli. Nella casa c’era pasta secca e pasta fresca, olio e vino toscano, del trebbiano frizzante per le ciambelle delle feste, la farina nostrana; ogni sabato qualche chilometro per comprar carne, per il brodo e per il lesso della domenica, sarde sotto sale, un po’ di cioccolata (per cal ragazzo). Per Natale appariva qualche rarissima arancia e un paio di mandarini. Alla Befana ammazzavano il maiale: il primo pasto erano i fegatelli con la polenta dolce di farina di castagne, poi si facevano salsicce , prosciutti, spalla, lardo e strutto. Il pane si faceva al giovedì e quando finiva al mulino facevano le “fogacine”, a Modena cotte nelle tigelle, nel pavanese, invece, fra i “testi” , forme tonde di terra refrattaria scaldate fino a diventare roventi al fuoco del camino. Un mondo a parte, autosufficiente.” Profumi antichi. Irripetibili, ma irrinunciabili.

Bambino, ricordo l’osteria in cima al paese: tavoli di legno sotto il pergolato, l’uva, i conigli e le galline. L’odore vinoso della cantina tra damigiane, botti e stoppe. Laggiù in fondo le macchie rosse dei papaveri e il campo da bocce: mi piace ancora sentire il frullìo della boccia che gira, la bocciata cristallina di quelli bravi. Noi giocavamo con bocce di pietra. Sui tavolacci, fave e formaggio, fichi e salame, la mesciùa dell’Emmetta; da bere, vino torbido e gazzosa.

Chitarre

Settembre è il mese del ripensamento sugli anni e sull’età, dopo l’estate porti il dono usato della perplessità

Di chitarre tra le mani me ne sono passate tante: le amo tutte, alcune per la verità le ho tradite. Son convinto che anche loro amano me, anche se non le suono con grandissima maestria. Ma mi sopportano, con affetto. Di alcune, perdute, ho nostalgia, come dell’età nel correre degli anni.”

Da ragazzo suonavo la chitarra: molto male, solo accordi in maggiore o in minore, mai diesis e bemolle. A casa ne avevo una un po’ dura: fuori suonavo quelle degli altri, almeno di quelli che tolleravano. Facilmente le dita erano sul Re minore dell’attacco de Il Vecchio e il Bambino, mi
piaceva l’arpeggio de La Canzone della Bambina Portoghese. Esasperati, alla laurea gli amici mi regalarono una vera chitarra classica: è qui in casa. Non ho mai più rivisto gli amici, non ho quasi mai più suonato.

Osterie

Sono ancora aperte come un tempo le Osterie di fuori porta…

A dire il vero l’osteria era in città, ci si andava soprattutto per mangiare e di giorno: operai, facchini, ambulanti si sedevano col loro cartoccetto e ordinavano il mezzo litro. Era un luogo povero, di diseredati. Non ci si divertiva all’osteria: i bar forse avevano più vitalità, brulicavano di personaggi. Ma a noi studentelli intellettuali non bastava, il bar: troppo rozzo, troppo quotidiano, e la voglia di giocare a Francesco Villon, appena scoperto a scuola, era come una sinfonia. Ci cantavamo nelle osterie, per lunghi pomeriggi, e i vecchi che giocavano a carte, nonostante evidenti differenze sul gusto del sound, si divertivano. A volte ci si andava a leggere, altre addirittura a studiare. L’osteria è luogo mitico, bistrattato e ora di gran moda: i tempi son tempi, e va bene così. Ne trovi tantissime, caratterizzate da improbabili oggetti in stile rustico contadino, rame antico e bottiglie polverose: spesso aggiungono una “acca” sull’insegna. E l’immancabile amico: ho scoperto un’osteriola! “

Da giovane frequentavo osterie di città, luoghi a metà tra la trattoria e il circolo culturale. Posti un po’ bohemien di provincia: ci portavano i jazzisti dopo i concerti. Ricordo Elvin Jones, stravolto, che si ferma lungo la strada accostato a un muro per fare pipì; e uno che gli fa : But Elvin, cos’ te fè? Te pissi ‘n ta strada? Fulminante esempio di internazionalizzazione dello spezzino. But Elvin.

Mi piacerebbe ritrovare osterie vere, con osti sinceri: né vecchio, né nuovo. Attenzione e passione.

E basta.

Radici

Ed io, l’ultimo, ti chiedo se conosci in me
qualche segno, qualche traccia di ogni vita
o se solamente io ricerco in te
risposta ad ogni cosa non capita…

C’è stato un tempo di rivolta generazionale, dei figli contro i padri, del nuovo contro il vecchio, che intendeva riconsiderare tutto il sapere precedente. In questo contesto rivendicare esplicitamente una tradizione popolare e montanara, collocarsi in continuità rispetto ai propri avi, fu una scelta coraggiosa. Anni di bombe e strategie della tensione, gli anni di piombo incombenti: era conseguente scegliere la strada dell’ antropologia, intima e interiore, tra istinto regressivo, tutt’altro che reazionario, e utopia, una “splendida utopia” , interrogando “ il solito silenzio senza fine” che abita ognuno di noi “. Come dire: io sono qui.

Mi chiedo come sia stato possibile: credo che i ragazzi di allora conservassero il senso della storia e credessero nel tempo, nella conquista di un tempo tutto loro per riflettere, amare e costruire: cercavano il futuro. Erano essi stessi nella storia.

Oggi il tempo è un vuoto insopportabile da riempire subito di stimoli artificiali e impulsi impazienti. Godimenti e scorciatoie conformiste, forse pavide, attimi isolati che non riescono nemmeno a diventare tempo. Chiamate senza risposta affollano le memorie dei telefonini.

La casa è come un punto di memoria,
le tue radici danno la saggezza
e proprio questa è forse la risposta
e provi un grande senso di dolcezza,

Casa, memoria, saggezza, dolcezza. Sembra il possibile percorso del menu di un’ osteria contemporanea: un posto dove stare bene, “a parlare di niente, sdraiati al sole inseguendo la vita”.  Che poi, se l’abbiamo capita o meno, beh, è un altro discorso.

Francesco Guccini – Non so che viso avesse – Mondadori


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