La Brasa Beef Reastaurant
via Nicola Nisco, 21 – Napoli
Aperto a cena dal martedì al sabato – Domenica aperto a pranzo
Tel: +39 350 950 9997 | +39 081 18779569
E-mail prenotazionilabrasa@gmail.com
di Angela Petroccione
Ci sono cucine che si riconoscono subito, hanno un centro, un’origine dichiarata, un repertorio che non si sposta. E poi ce ne sono altre, più rare, in cui la firma non sta nei piatti tipici ma nello sguardo di chi li compone, cucine che nascono non da un luogo, ma da un percorso.
Quella di Francesco Agnese, ischitano, classe 1985, appartiene a questa seconda categoria, non si appoggia su una tradizione da custodire ma su un modo di leggere il mondo. È una cucina che non cerca un’identità unica, perché la sua identità è proprio l’apertura, l’abitudine al confronto, allo spostamento, alla contaminazione come gesto naturale.
Un’attitudine che non arriva per teoria, ma per esperienza. Agnese ha iniziato a cucinare in movimento, prima in mare, sulle imbarcazioni in cui rigore e adattamento diventano competenze obbligatorie, poi tra cucine italiane ed europee, dove ha imparato a osservare le differenze senza assorbirle passivamente.
Formatosi al Coquis e passato per l’Enoteca Ferrara, Francesco Agnese prosegue al Mini Palais di Parigi con Eric Frichon, al Le Jardin des
Remparts in Borgogna e al Sapori di Leicester. In Italia lavora al Relais Bellaria, al Bikini e in ristoranti come Adele e Particolare. Non ha collezionato influenze, le ha filtrate, ordinate, rese proprie.
Oggi questa traiettoria converge nella sua cucina a La Brasa Beef Restaurant, a Napoli, nel quartiere di Chiaia dove approda nel 2022. Un ristorante elegante e misurato, dove il fuoco è tecnica e linguaggio, e dove l’idea di contaminazione non è esercizio stilistico, ma conseguenza naturale del suo percorso.
La cucina come metodo, non come repertorio Agnese non costruisce i piatti partendo da un’idea di origine, ma da una domanda più semplice e più complessa insieme: cosa serve davvero per esprimere un ingrediente?
Le sue esperienze gli hanno insegnato tre principi che ritornano in ogni assaggio, essenzialità perché il superfluo in cucina è spesso un ostacolo, precisione perché l’errore sul fuoco non si corregge, curiosità perché ogni tecnica può aprire una strada.
La brace, centrale nella filosofia del ristorante, non è un vincolo tematico, ma uno strumento che permette di lavorare sulle intensità senza appesantire, un filtro, non un marchio.
La carta delle carni è ampia e ricercata e include alcuni dei tagli più pregiati e caratterizzanti al mondo: dalla Rubia Gallega al Black Angus statunitense di Creekstone, dalle selezioni giapponesi di Wagyu alle proposte australiane e centro-europee.
Ma anche questa abbondanza non è il cuore della cucina, è un vocabolario a disposizione, non il contenuto.
La degustazione – L’apertura vegetale: leggerezza come dichiarazione
La degustazione riflette perfettamente la sua visione, piatti che non replicano la tradizione ma la attraversano con mano leggera, tecniche che arrivano da lontano ma che si integrano senza forzature, materie prime trattate con un rispetto quasi chirurgico.
In un ristorante centrato sulla carne Agnese sceglie di iniziare dal vegetale e non per provocazione, ma perché è lì che si vede l’equilibrio della sua cucina.
Uno spiedino di barbabietola, funghi e zucca lavorato con la griglia come se fosse un tratto di matita, un bun morbido che porta in sé sentori di soia e caffè, una lettura personale della paella, asciutta e verticale, costruita su consistenze che dialogano più che stratificarsi.
In abbinamento il Franciacorta Camilucci Ammonites, che accompagna gli amuse-bouche con una freschezza nitida e una bollicina sottile, perfetta per pulire senza sovrastare.
La tartare che cambia le regole
La picanha di Creekstone, un taglio raramente destinato al crudo, diventa tartare grazie a una lunga maturazione controllata, che ne ammorbidisce la fibra senza intaccarne l’identità.
Giardiniera, cenere vegetale e bernese costruiscono un equilibrio insolito ma preciso.
Il piatto parla di etica, di rigore e di una volontà chiara di dare dignità a tagli spesso considerati secondari.
La pasta e il fuoco: un incontro calibrato
Gli spaghetti Monograno Felicetti scottati sulla brace, trasformati in una cacio e pepe affumicata, rappresentano forse il gesto che più appartiene al suo modo di lavorare, prendere una tradizione riconoscibile e farla passare attraverso una tecnica che modifica il risultato senza snaturarlo.
Il mix di sette pepi aggiunge profondità, calore, resina, spezie, non una fuga, ma un ritorno.
Qui entra in scena il Nebbiolo Luigi Pira 2024, giovane e verticale, capace di sostenere la struttura del piatto senza appesantirlo.
I secondi: intensità controllata
Il filetto argentino in versione Wellington è un omaggio alla grande cucina classica, eseguito con disciplina e misura, senza concessioni superflue.
Il Wagyu di Kagoshima, invece, richiede solo una cosa, una brace calibrata, il resto lo fa la carne.
Il Rosso di Montalcino 2022 di Gorelli sostiene i secondi con un profilo caldo e ritmato, in equilibrio con il Wellington e con il carattere del Wagyu.
Accanto, la carta propone una selezione ampia di razze e tagli (Rubia Gallega, Swami, Manzetta Prussiana, Angus spagnolo, Umi, Wagyu giapponese e australiano) trattate sempre con lo stesso approccio, dare spazio alla materia senza sovrastarla.
I dolci come ultimo movimento
Il finale segue due traiettorie: la transizione in freschezza della panna cotta alle mandorle con granita al limone e finocchio marino, e la complessità di “Suggestioni autunnali” proposta costruita con castagne arrostite, frutta grigliata, una riduzione di Aglianico e una crema al Blu ’61, erborinato affinato in passito, un dessert che è sintesi di più anime, dalla freschezza, alla sapidità per arrivare alla dolcezza e a cui si affianca la profondità aromatica del Sauternes Château Filhot 2022.
La sala: una regia silenziosa
La sommelier Flora Manzo e il maître Mario Torriere gestiscono la sala con un’eleganza non invadente. La carta dei vini, ampia e intelligente, segue lo stesso criterio del menu: territori italiani e internazionali, con un’attenzione particolare alle espressioni campane meno ovvie.
La Brasa è l’approdo in cui le traiettorie di Agnese si raccolgono senza chiudersi.
Ogni piatto sembra un punto d’incontro tra ciò che ha attraversato e ciò che continua a cercare, con una misura che nasce dall’esperienza più che dall’intenzione.
La sua cucina non si adagia su una firma, la costruisce ogni giorno, con la lucidità di chi sa che il movimento non è una parentesi ma un metodo.
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