La mesciùa, ovvero dei ricordi

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

Mesciùa. Ci sono parole che i forestieri spesso non riescono a pronunciare, quasi che la capacità di movimento della lingua sul palato non risultasse la medesima a seconda delle latitudini. E’ in fondo ciò che differenzia i dialetti, le parlate: scopro insomma l’acqua calda, se non fosse che di acqua, calda o fredda che sia, ne occorre parecchia per preparare questo piatto.

Mesciùa. Mi raccomando allora, nessuno strascicamento, nessuna sciàta nel pronunciare questa parola, che è parte della mia città, forse concetto inesistente fuori dei confini spezzini: mes-ciùa, sillabe separate, con le finali quasi a mandare un bacio o a imitare lo sferragliare di un trenino, a meno che non abbiate dimestichezza col cinese. In effetti il dialetto spezzino per un qualche motivo che mi sfugge porta con sé delle durezze, degli inciampi che qualche chilometro verso ponente sono già spariti lasciando posto all’indolente, aperta inflessione del dialetto genovese. Te a te chini chi o te chini ciù ‘n là ?, è l’esempio lampante che ogni spezzino adotta per dimostrare un antesignano spirito globalizzante, uno sguardo rivolto ad oriente, un’indole senza fissa dimora, errabonda, tanto da dover spesso chiedersi dove scendere e se vale la pena di farlo. Poeti e navigatori spesso immaginari, ma sicuramente indecisi.

Mesciùa, allora. E’ una zuppa di legumi, miscuglio, mescolanza di granaglie, raccattate nel porto così come capitava. Questo è il significato letterale, mentre quello culturale, come spesso accade per i cibi della tradizione, richiama una condizione di povertà, di capacità anche gioiosa di adattamento, la stessa che fu madre della farinata, per esempio: acqua, olio e farina di ceci caduta dai sacchi.

Mesciùa, ovvero delle domeniche nelle osterie fuori porta, i pergolati d’uva fragola, ciuffi d’erba tra i piedi e i tavolacci di legno inchiavardati e sconnessi, sparpagliati di montagne di fave e formaggio, di salame e pane nostrale; e poi il vino, torbidamente ambrato e acetico, le gazzose e le spume, le zucche che sarebbero angurie, le galline e i conigli, le battaglie con le spighe tra i campi di papaveri rossi. Mesciùa e le partite a bocce, lo sfrizzolare del metallo sul ghiaino, la sbocciata sorda della pietra, le canottiere bianche di cotone, eleganti e a piccole coste, le canottiere ingiallite di lana un po’ infeltrita, le canottiere blu degli operai; i passetti concitati dei giocatori dandy con la camicia bianca e la cravatta nera, stretta, a volte un po’ lisa, allentata e infilata dentro la camicia; le scarpe nere stringate, quelle della festa irrimediabilmente impolverate, come i calzini corti sotto al polpaccio, grigi o tristemente bianchi. Erano i tempi della brillantina di Gregory Peck, della cicca penzoloni dalle labbra di Robert Mitchum. Erano i tempi della mesciùa, erano altri tempi.

Mesciùa che oggi non si fa più, che a malapena puoi trovare in un paio di trattorie, quasi ripudiata. Sopravvive forse nelle case, nella pazienza di mani antiche, negli occhi velati di ricordi, nella sapienza familiare e materna, in una paginetta ritagliata e vergata di pugno. Vive nella reiterazione di gesti di gioventù, in una immutata attrazione per un mangiare di gusto e con gusto, in realtà così contemporaneo nell’affermazione di una tradizione senza compromessi e finzioni, piena di memoria, depositaria di conoscenza, portatrice di esperienza.

Mesciùa che proverà a esser densa, opalescente, apparentemente priva di componente acquosa, di consistenze diverse, mollemente sinuosa, tiepida, mai bollente, un giro d’olio a crudo, una grattata di pepe e una fetta di pane nero. Si parla di provare, beninteso, perché è più facile vedere granaglie che galleggiano tristi, naufraghi stancamente alla deriva.

Si ragiona allora per tre o quattro persone a tavola, dipende dalla potenza dei singoli, ma senza timori, che con la semplice aggiunta di un paio di cucchiai di acqua caldissima, è più che buona anche il giorno dopo.

Ti serviranno tre chilozzi di fagioli cannellini, due chili di ceci e un chilo di grano.

Prepari una bella tinozza di acqua tiepida, addizionata di un pizzico di sale, dove metterai a dimora per ventiquattr’ore i ceci e il grano; ai fagioli invece basteranno dodici ore di ammollo, ma in acqua fredda. Trascorso il tempo previsto, sciacqui legumi e granaglie, li versi in gran mescolanza in un pentolone d’acqua fredda alta quel che basta a coprire il tutto, e porterai l’ambaradan su un fuoco vivo, fino al bollore. A questo punto il gorgoglìo si dovrà protrarre per almeno un’ora ma a fuoco lento, anzi lentissimo, in modo da asfissiare le granaglie, lasciate senza spazio, senza possibilità di rincorrersi: l’aspirazione, minuto dopo minuto, sarà pervenire a quell’ imprescindibile cremosità, che avvolga d’un velo i ceci ancora di morso, i fagioli al limite dello sfarinamento e il grano elasticamente impertinente. Niente sale, che aggiungerai con cautela solo a cottura praticamente ultimata. Se caso potrai aggiungere acqua bollente durante l’estenuante sobbollìo.

Mesciùa, che non è una zuppa per l’inverno, è anzi piatto o scodella di terracotta per la bella stagione, da gustare ai primi soli primaverili o al fresco delle sere estive.

Mesciùa, che è un bambino arrossato sdraiato tra i papaveri: un segno di bruciatura gli disegna una canottiera sulle spalle, indossa pantaloni corti all’inglese, i calzettoni bianchi abbassati alla Sivori su impraticabili sandali blu con l’occhio. Fissa il sole con gli occhi strizzati, tra le labbra tiene un lungo filo d’erba, cappio per le lucertole, nella testa un’infinità di pensieri, fortunatamente leggeri. La mesciùa è pronta, sono tutti seduti a tavola, all’ombra del fico. Tutti. Qualcuno grida impaziente “Fabri….Fabri… Ma dov’a l’è quer fante?”. Silenzio. Nel mezzo solo passaggi, passaggi di tempo.


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