L’Ispettore Michelin e il tatuaggio giapponese

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

“No, morire no, non ci ho proprio pensato”.

“Morire è una parola grossa. Nemmeno si può dire sia stata una prova di forza, una dimostrazione di coraggio: non fa per me, altrimenti avrei avuto mille occasioni quando giocavo a rugby, mettendo la testa dentro una mischia o frantumandomi contro un camion di ossa e muscoli lanciato a cento all’ora. Ma alla prima collisione mi spaventai: il coraggio mi lascia indifferente”. Avevo messo in fila molte più parole di quante non ne avessi pronunciate nell’ultimo paio d’anni: mi zittii come ipnotizzato dal crisantemo che lei aveva tatuato sul braccio. Se ne accorse e smise di sorseggiare il suo Mojito: “Le piacciono i crisantemi?”

Provate a chiedere a Chabal se gli piace andare in meta o asfaltare con un placcaggio uno con la maglia diversa dalla sua. In questi casi di solito sono abbastanza carogna da non dare soddisfazione, basta rispondere a monosillabi, possibilmente destando ulteriori curiosità: “Li coltivo; ma quel crisantemo non lo conosco, è molto bello”. Lungo, ero andato troppo lungo, fuori pedana. “E’ un irezumi, un tatuaggio secondo lo stile giapponese: questi, piccoli e rossi, sono fiori di ciliegio, effimeri, vivono due o tre giorni soltanto, rammentano la caducità, la brevità della vita; il crisantemo si chiama kiku e in Giappone è il fiore caro all’Imperatore e come tale simboleggia determinazione, purezza e armonia. Insomma un incoraggiamento a vivere la vita positivamente, giorno per giorno, assaporandone gli aspetti più veri, più importanti, più belli”. Ma come parla questa, e chi la ferma più: in altri tempi mi sarei messo a ridere. L’equilibrio non mi appartiene, mi spaventa, quasi quanto i centrini di pizzo di mia madre. Troppo facile. Io so essere solo squilibrato, impaurito, inadeguato perché solo così mi sento vivo. Non ho passato la Chaussée de Sein per morire: per vivere, semmai.

La ragazza aveva intuito, ma non aveva capito. Tuttavia le dovevo qualcosa e quasi l’ammiravo, così infervorata nei suoi ingenui ragionamenti, leggermente forzosi e vagamente ridondanti, e tuttavia animati da una sorta di sincera e sana follia che mi intrigava. Era così soddisfatta di aver fatto breccia nell’uomo in realtà più vulnerabile di questa terra, che iniziò a trarne suggestioni che si concludevano con una sorta di litania: “perché ecco, io credo che lei alla fine debba porsi questa domanda…”. A un certo punto la fermai, feci un cenno con le mani come per frenare, rallentare, la guardai attraverso i capelli lunghi e sciolti che mi cadevano davanti agli occhi e deragliai di brutto. “ Vedi, io per natura e professione le domande me le pongo continuamente e sempre prima di ogni altra cosa, ma ora, in effetti, alla fine del nostro incontro, una domanda ce l’avrei: fin dove arriva il tuo tatuaggio?”.

Fare sesso in una armeria per forza di cose comporta un che di esplosivo, anche se là dentro ci sono più attrezzi per il giardinaggio che armi. Ebbene sì, il tatuaggio continuava: all’altezza del gomito, tra i flutti si agitava una carpa che risaliva tutto il braccio fino a trasformarsi in un dragone verde che avvolgeva il deltoide, allungando le circonvoluzioni della propria coda lungo la spalla, fino a lambire la schiena. Sembrava ansiosa di descrivermelo, nonostante al momento non fossi persuaso di prestare particolare attenzione soltanto al suo braccio sinistro: mi spiegò, per quel che ricordo, che la carpa risale la corrente fino a trasformarsi nel drago, come dire che solo affrontando le avversità della vita con coraggio è possibile acquisire forza ed esibire bellezza. Troppi punti esclamativi per i miei gusti, certezze spiattellate senz’anima. Le regalo un piccolo crisantemo che tenevo nella serra: “ Non è bello come il tuo, è un po’ stortignaccolo, è fragile, abbine cura”. Per tutta risposta lei mi scatta delle foto nel mio giardino, tra le mie piante: “Michelin, sarai anche un fottutissimo anarcoide misantropo e solitario, ma sai farti voler bene dalla gente”. Ci siamo baciati, le sue labbra sapevano di fragola. Ora che ci penso non ricordo nemmeno il suo nome.

In fondo se qualcuno mi vuole bene lo fa a suo rischio e pericolo, insomma non lo incoraggio. Mi spaventa l’idea che qualcuno mi pensi, mi sento più leggero a pensarmi impensabile, anche se spesso cedo a me stesso emozionandomi per un gesto, un saluto, un ricordo. Piccole cose, insomma, attimi d’attenzione, dettagli.

“Vuoi provarli?”. Babette d’improvviso mi mette davanti una ciotola con qualche moule alla marinara: la notte ho ancora un sonno piuttosto agitato, per di più visitato da mostri marini spesso bivalvi, ma provo. Buoni. La piccola Babette mi stropiccia i capelli e mi bacia sorridendo contenta: “Ti va una salade normande?”.

Il sole è calato dietro i tetti neri di ardesia, c’è ancora luce, quella luce lunga, dolce e sospesa delle prime sere d’estate. Mi lascio viziare come un bambino, fingo incertezza solo per centellinare il gusto ritrovato: con lentezza apro i moules e li succhio alternandoli agli spicchi di patate saltate nel sidro, poi intingo le crevettes nella maionese appena punta di mostarda di Digione, beandomi del profumo intenso del prezzemolo e della croccantezza del cipollotto, fresco e traditore. Alla fine mescolo tutto e bevo a grandi sorsi una Blanche de Namur, rinfrancandomi coi precisi profumi d’agrumi, lo sguardo perso oltre le barche all’ormeggio, puntato chissà dove, forse a sud.

Mi ha scritto Mariana, invitandomi nella sua casa in Provenza, nella bastide del suo ristorante, ovviamente senza di lei. Pensione completa, passeggiate e relax, dice lei. E ricordi, aggiungo io. Mi sfiora l’idea di andarci, forse per vedere finalmente i campi di lavanda in fiore, certamente per riprendere a farmi del male, quantomeno per non perdere l’abitudine.


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