L’ultimo Fiano di Vadiaperti: ricordo di Antonio Troisi

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Antonio Trosi, il professore del Fiano

Antonio si mise in posa, rigido davanti alla macchina fotografica di un professionista, Lino Sorrentini del Mattino. Io stavo dietro e pensavo come questo scatto stesse cambiando per sempre il rapporto tra me e lui, perché non eravamo più compagni di partito. Ci si ritrovava nel 1994 perché lui era stato il primo a produrre Fiano etichettato dopo Mastroberardino sin dalla metà degli anni ’80 e per la prima volta un quotidiano si stava occupando di questa cosa, la storia materiale di Braudel bussava alle porte dell’informazione generalista di massa anche al Sud.
Fu un minuto interminabile, Lino da bravo fotografo provava a sciogliere l’atmosfera, ma Antonio aveva due buoni motivi per non stampare un sorriso commerciale davanti al macchinone: era irpino e per giunta comunista. Io lo tranquillizzavo, “non ti preoccupare, giusto un attimo”. “Ma perché mi  dovete fotografare? E’ necessario?”. “Si lo so che ti sembra una stronzata, ma la serie è sui nuovi personaggi del vino e lo sei tuo malgrado”.
Ed ecco la foto di lui impaziente con la voglia di alzarsi. Altro che calice in mano, restò con la sua pipetta inseparabile da montanaro.

Lo avevo ritrovato esattamente dopo dodici anni  perché la nostra amicizia risaliva al 1982 quando facemmo la prima riunione per aprire la redazione di Avellino di un quindicinale edito dalla federazione comunista, Dossier Sud, diretto da Joe Marrazzo di cui ero stato nominato amministratore. Riunioni fiume e poi in trattoria. Tonino amava la vita, nel privato era gioioso e ironico quanto rigido da militante. Una sera Antonio tirò fuori una bottiglia di bianco e ci disse sorridendo: ora vi faccio provare il mio Fiano. Non era un’epoca di complimenti di maniera, lo bevemmo e non commentammo, ma quando si alzò ci dicemmo tra noi: “Ma perché perde tempo con questa stronzata?”. Tonino,  “‘o prufessore” aveva iniziato a produrre in una piccola proprietà su una zona individuata insieme ad un suo amico, il padre di Sabino Loffredo di Pietracupa. Entrambi comprarono l’uno a fianco all’altro.

Già, mentre l’Italia si avviava verso i fantastici anni ’80 degli yuppies, prodromo della catastrofe culturale ed economica attuale, la Campania attraversava il suo più brutto decennio dei tempi recenti dopo la sconfitta del 1860. Il terrremoto del 23 novembre 1980 aveva devastato l’Irpinia facendo quasi quattromila morti, la camorra approfittò del fiume di soldi per entrare nelle istituzioni diventando una istituzione grazie alla organizzazione di Cutolo a cui si contrappose quella di Alfieri-Galasso. E furono altri tremila morti ammazzati in dieci anni, più che in Irlanda del Nord, come a Beirut. Una guerra. Dossier Sud nacque per raccontare tutto questo e lo fece alla grande per due anni tra mille difficoltà.

Tra quelle scosse e quegli spari di 30 anni fa si contrapposero due progetti di sviluppo opposti e complementari: quello di De Mita e quello di Bassolino. E come tutti i nemici giurati, avevano molto più idee da condividere che elementi di divisione. L’operaismo trontiano del futuro sindaco di Napoli si baciava perfettamente con il solidarismo cattolico nel vedere nella industria l’unico elemento di riscatto possibile dall’arretratezza delle aree interne. Altro che agricoltura. Nacquero i poli industriali che oggi come metastasi affliggono l’ambiente ma che allora offrirono ai giovani un lavoro per non scappare.
E dopo le inchieste del Giornale firmate da Paolo Liguori, violento come tutti gli apostati, sino a dieci anni fa l’Irpinia è stato sinonimo in Italia di truffa allo stato nonostante i soldi siano stati rubati soprattutto da banditi piovuti dal Nord come attestano tutti gli atti giudiziari.
Un territorio riscattato dal vino.

Chi si poteva immaginare che il seme di sviluppo non lo avevano trovato questi due potenti perché lo teneva un professore di provincia, per giunta leninista? No, nessuno lo poteva pensare e la sua voglia di produrre vino fu iscritta nei vezzi borghesi che forzatamente richiamavano origini ormai dimenticate. Perché le vigne si regalavano e si abbandonavano in quel lurido medioevo televisivo che sono stati gli anni ’80 culminato con il metanolo.

Invece le cose giuste germogliano sempre. Ne sono convinto perché ottimista.
Dopo il 1994 la frequentazione con Antonio fu assidua e costante, come dieci anni prima: ogni volta che giravo per l’Irpinia facevo tappa lì. Gli feci provare i vini che scoprivo, da Caggiano a Clelia Romano e tante serate finivano in quella stanzetta della cantina di Montefredane. Fu lui ad accompagnarmi per la prima volta dai Feudi nel 1995.
Nel 1997 un momento simbolico, con l’inaugurazione del primo dottorato sul vino campano organizzato da Vito Puglia alla Certosa di Padula con i vertici di Slow Food, e c’era Tonino. E pure Enzo Ercolino. Due onde diverse di una stessa corrente.
Fu là che appresi le prime difficoltà di Vadiaperti. “Tonino – mi disse Vito Puglia, all’epoca responsabile Sud di Slow Food – purtroppo ha dei problemi, bisogna fare di tutto per aiutarlo”.

L’anno dopo lui se ne andò. A salutare la bandiera rossa sulla bara dentro la chiesa un solo produttore: Antonio Caggiano.

Raffaele raccolse la difficile eredità del padre: tecnicamente molto più preparato, se Antonio era curioso di uomini, lui più di vini, primo giovane produttore impegnato a bere non solo le sue bottiglie.

Ieri la telefonata e la mail indirizzata ai responsabili delle guide, di cui ha chiesto la non divulgazione. Sbagliando, ma la comunicazione non è mai stato il suo forte, perché esprime semplicemente, e senza segreti di Fatima, meglio di come potrebbe fare qualsiasi estraneo, me compreso, che ha deciso di chiudere.

La 2012 è l’ultima annata di un’azienda che ha sempre dovuto combattere con il macigno economico alle spalle.

Così Vadiaperti diventa un simbolo: primo a etichettare oltre Mastroberardino il Fiano, primo insieme a Ocone a produrre coda di volpe in purezza. Prima cantina di successo a chiudere dopo trent’anni.

I vini di Raffaele sono stati sempre fantastici perché ricchi di carattere, salati e minerali, segnati da una freschezza piena di energia vitale e riottosa. Impossibili da bere pensando ad altro. Soprattutto capaci di attraversare gli anni come hanno dimostrato la verticale di Greco di Tufo del 2007 di Fiano o di Coda di Volpe.
Cercando “Vadiaperti” in questo sito usciranno decine di voci, a Tonino è dedicata la prima guida dei vini campani del 2003.
Ma non sono stati solo i vini di Montefredane a far seguire con passione questa azienda decidendo di assegnare la chiocciola sin dalla prima edizione di Slow Wine. Bensì la consapevolezza del ruolo storico importante svolto nella viticoltura irpina ai suoi primi passi nell’era moderna post metanolo.
Dovessi riassumere direi: Vadiaperti, Coda di Volpe, Montefredane. Ossia, prima cantina dopo Mastroberardino, scoperta di un grande vitigno bianco, lancio di Montefredane come uno dei veri cru naturali della Campania.

Raffaele ha 42 anni, dalla lettera si evince l’amarezza della fine di un ciclo, ma anche il sollievo di essersi liberato di un peso.
La vita appartiene agli individui e rispettiamo profondamente ogni scelta.
Ma le aziende che gli individui hanno fondato appartengono a tutti noi.


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