Ora vi racconto una storia: Manuel Lombardi e il Conciato Romano

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Il giovane pastore faceva l’informatico, ma non ha potuto vivere senza risolvere i misteri dei Monti Trebulani, dieci cime che il Volturno ha staccato dall’Appenino dove i romani bevevano Casavecchia e mangiavano il conciato.

Quando il 22 ottobre 2007 il fratello Fabio muore a 22 anni travolto dal suo trattore mentre lavorava nell’oliveto di famiglia, una fine antica così lontana da quelle dei suoi coetani il sabato notte, il Destino lo ha riportato per sempre tra i boschi e vigneti popolati dalle vacche del Sole e dalle pecore, la luce è quella del cielo, il rumore è il silenzio di misteriosa campagna dell’Alto Casertano, così vicina e così lontana dalla Reggia e dalla inutilità del suo mordi e fuggi scolastico.

Liliana e Francesco Lombardi sono il padre e la madre del giovane pastore Manuel. Emigranti come tanti terroni, rientrano a Buonomini, nome omen, piccola frazione di tre o quattro case di Castel di Sasso sorvegliato dal monte Friento.

E Liliana, donna energica e dolce, ad avviare l’attività agrituristica facendo un corso e riprendendo la ricetta del formaggio dalla suocera Maddalena alla fine degli anni ’80. Nel 1995 Le Campestre della famiglia Lombardi è tra i primi agriturismi della Campania ad aprire i battenti, pionieri di un movimento che ha cambiato in dieci anni la percezione della campagna in una regione sempre vissuta sulla centralità della grande metropoli dove il Bene e il Male si scambiano le parti in continuazione.

Il formaggio in queste zone si faceva per assicurarsi la riserva di proteine in estate, quando le pecore non fanno latte, era un cacio quasi dimenticato nella sua concia in anfora, alla maniera antica.

Due uomini le sono a fianco: prima Leandro Lamanna che riesce a classificare il formaggio e a restituirgli la storia, nel corso degli nani ’90, poi Vito Puglia, all’epoca riferimento di Slow Food nel Mezzogiorno, che nel 2002 accende i fari su questa piccola produzione con l’istituzione del Presidio.

Ed è la svolta, raccontata in un bellissimo articolo di Manuela Piancastelli nel 2006 sulla rivista Ex Vinis di Veronelli, affascinato dalla storia del formaggio e dalla energia di Liliana. Una energia enorme, inesauribile, che riesce a trasmettere prima a Fabio, bellissimo ambasciatore del conciato romano per l’Italia che faceva il pastore sognando di diventare modello, poi di Manuel.

Quasi un racconto mitologico in questi monti antichi e chiusi, Manuel con Eulalia pensava ad una vita nel grigio di città, l’informatica sembrava la nuova epoca per tutti, la Net Economy già pelava il popolo bue della Borsa.

«Alla morte di mio fratello inizialmente pensai che questo lavoro lo potesse fare mia moglie con mia madre. Man mano che passava il tempo mi sono accorto che dovevo prende il posto di mio fratello, solo così la mia vita avrebbe potuto avere un senso».

Via allora, si cambia tutto, quasi seguendo l’esempio degli amici Manuela Piancastelli e Peppe Mancini immersi nella riscoperta del Pallagrello e del Casavecchia.

Al lavoro tra i 14 ettari di proprietà, nell’agriturismo con quattro camere, le 200 pecore, qualche vacca, l’orto, il vigneto, l’olio. E l’aspetto più duro e faticoso di questa esistenza con gli animali, mezzo allevatore, mezzo casaro, sicuramente contadino, non è mungere, portare al pascolo, caseificare. No. Il vero nemico è la burocrazia che esegue leggi scritte dalla grande industria.

«Noi facciamo un formaggio che si è sempre fatto da due millenni almeno, ma solo nel 2009 abbiamo avuto la deroga per poter usare le anfore e le fuscelle».

Ma come si fa il conciato? Riportiamo la descrizione di Manuela: il latte appena munto si mette in bagnomaria tiepido con il caglio di capretto o di agnello. Si lascia un paio d’ore a rapprendere, poi si rompe (rottura della cagliata) e lo si tiene in acqua tiepida per un’altra mezz’ora. Nasce così la forma di formaggio. Si sala da un lato e, dodici ore dopo, dall’altro. Poi si leva dalle fuscelle e si mette ad asciugare nel «casale», un semplice mobile aperto composto da mensole di listarelle di faggio, per due settimane. Finita la fase dell’asciugatura, comincia quella più impegnativa e tipica: le forme vengono lavate con l’acqua di cottura delle pettole (pasta fresca fatta in casa), quindi ricca di amido, si fanno asciugare su un telo di lino e successivamente vengono poste in orci di terracotta con una conciatura di olio, aceto, peperoncino e pimpinella, un’erba aromatica selvatica. Il formaggio, in questo modo «conciato», viene messo nell’orcio e sigillato. Resta così per un periodo variabile da sei mesi a due anni durante i quali matura.

Manuel ha capito che il conciato, oltre ad essere un formaggio, è soprattutto un grande esaltatore di sapore: va bene con quasi tutto ed è per questo che è stato adottatato dai ristoratori italiani più attenti e da alcuni pizzaioli.

La pizza di conciato e papaccelle suggerita dal fiduciario vesuviano di Slow Food Alberto Capasso ai fratelli Salvo è un piccolo grande capolavro di equilibro. Addio «select all and past», il futuro dei figli di Eulalia e Manuel è affidato alla concia di un formaggio purissimo che ama l’ambiente. E così, nei monti Trebulani, si può raccontare una antica storia moderna.

*Articolo oggi pubblicato sul Mattino


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