Da Umberto a Napoli, il cuore della tradizione napoletana a Chiaia

Pubblicato in: Le pizzerie
Gaetano Di Lorenzo a sinistra, Enzo Mariniello e Vincenzo Galliano
di Emanuela Sorrentino
Dall’1 ottobre 1980 ad oggi. Oltre quarant’anni, una vita trascorsa nelle cucine dello storico ristorante Umberto, dal 1916 nel cuore di Chiaia, a Napoli. Per Gaetano Di Lorenzo una seconda famiglia quella di titolari,
clienti e colleghi. «Avevo finito di lavorare con mio zio e incontrai nel mio quartiere, alla Sanità, Leopoldo Arienzo, pizzaiolo storico del locale. Mi disse che Umberto cercava un apprendista e quindi mi presentai in pizzeria.
All’inizio mi misero a pulire le vetrine, le mattonelle e i banchi di lavoro. Il primo giorno incontrai don Peppino Di Porzio, ‘o Ragiuniere’ come lo chiamavano tutti e mi mise un po’ timore. Una persona elegante, ma al tempo stesso umile, che mi chiese subito cosa io sapessi fare. Il giorno dopo fu la volta della signora Maria, la moglie di don Peppino, che mi fece capire subito come funzionava da Umberto: mi vide senza copricapo e mi disse: guaglio’, ma il cappello non ce l’hai?». Per molti anni Gaetano si è diviso tra
cucina e pizzeria. «Ho fatto l’aiuto di Leopoldo, conosciutissimo nel quartiere Chiaia, e da lui ho imparato tutti i segreti del mestiere e come fare un impasto secondo tradizione. Poi un giorno mi disse: Gaetà, ma insomma vuoi diventare pizzaiolo? È un bel mestiere. E mi diede appuntamento la mattina presto per fare l’impasto: ma lui non venne.

Mi tremavano le gambe e avevo paura di sbagliare. Ma preparai tutto da solo e iniziai a fare le pizze per dei clienti. Poi arrivò Leopoldo e gli domandai perché non si fosse presentato. Lui mi guardò e mi disse: adesso hai preso coraggio, ti sei lasciato, puoi fare il pizzaiolo».
Massimo Di Porzio, titolare con le sorelle di Umberto, spiega quanto sia essenziale avere un rapporto costruttivo e di affetto con personale e clientela: «Con le mie sorelle abbiamo condiviso gran parte della
nostra vita con Gaetano: gioie, dolori, difficoltà, anniversari. Mi emoziona pensare che una persona possa essere così legata ad un locale e di riflesso ad una famiglia da decidere di trascorrere tutta la propria vita lavorativa con noi. Lo consideriamo come una persona di famiglia, che con noi ha scritto una bella pagina della storia della nostra pizzeria. Il valore aggiunto di una pizzeria storica, centenaria è proprio questo: il cliente trova anche questi rapporti umani, che in tempi difficili come questi, ti danno un valore aggiunto». Dal lavoro all’amore: da Umberto Gaetano ha conosciuto anche la donna della sua vita, Roberta Giglio, che lavorava da un parrucchiere in zona e a pranzo prendeva le pizze per il personale. «Mi colpì subito e quando la vedevo cercavo sempre di dirle qualche parola e di favorirla in qualche modo: un po’ d’olio e una fettina di mozzarella in più. Poi la invitai ad uscire, chiedendo un giorno di permesso al ‘ragioniere’».
Gaetano ha sfornato pizze per tanti celebri personaggi arrivati da Umberto. «Ricordo sempre i presidenti Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, i primi ministri Silvio Berlusconi, Massimo D’Alema e Matteo
Renzi, il Premio Oscar Paolo Sorrentino, Renzo Arbore, Nino D’Angelo, Giacomo Rizzo, Rita Pavone e Teddy Reno, Margherita Buy, Vincenzo Salemme».

Nel lavoro Gaetano ha una passione per la pizza senza glutine, che ha imparato a preparare sotto l’egida attenta dell’Associazione Italiana Celiachia, anche e soprattutto perché «sono convinto che il mondo
della pizza e della ristorazione deve adeguarsi alle esigenze dei clienti. Ho iniziato nel 1999, dopo un “Pizzafest” alla Mostra d’Oltremare – spiega Di Lorenzo – Mi colpì il fatto che vedevo questi bambini che per condividere la gioia della festa dovevano sedersi a parte, ad uno stand dell’associazione. Poi facemmo una festa di bambini al ristorante e ne arrivò uno con in mano una pizza in busta.
Mi disse: “Mi puoi mandare questa a tavola insieme alle altre dei miei amici?” Da allora ho iniziato a prepararla io e a fare in modo che questi bambini, ma anche gli adulti, non si sentissero più diversi dagli altri».


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