Roberto Goracci: Acqua viziata / Un tuffo dove l’acqua è più blu, niente di più

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

Upon the seventh seasick day we made our port of call
A sand so white, and sea so blue,
no mortal place at all.
We fired the gun, and burnt the mast,
and rowed from ship to shore…

C’è una bella differenza tra un porto e una marina: il porto “odora di scaglie di pesce seccate al sole”, di muscoli e sartiame, profuma di alghe e di salsedine, offre intimo riparo tra effluvi di ferro corroso e ossidato. Una marina è laccata e lucente, di teak e acciai cromati, è soffusamente illuminata di false trattorie di pesce “che hanno tutta l’aria di levarti anche i peli del culo”, profuma di abbronzature e creme doposole, riluce spottosamente di Rolex e di spreco.

La marina è un prolungamento della terra sul mare, il porto è una zampata del mare alla terra”.

Questioni di vita, o di morte, basta intendersi, basta decidere da che parte stare.

Porto o marina è un modo di vivere il mare, forse un modo di essere: cinque barche si incrociano casualmente nelle acque dell’isola di Ponza, confuse tra le migliaia di barche parcheggiate in quinta fila, durante un lungo e caldo fine settimana estivo. Ricchi sfacciati, ottusi faccendieri, puttane d’alto bordo e amici leccaculo, sfiorano vacanzieri in cerca di emozioni e marinai sfigati per di più blogger, sotto gli occhi assenti di skipper scoglionati che fanno la spola con l’isola, silenziosi e assenti come autisti di un bus notturno. E il mare che guarda, il mare che mette alla prova, il mare che non perdona, il mare che smaschera e affascina, mare su commissione, mare d’evasione, ora specchio dell’anima, ora dio giudice che ti guarda dalle profondità, dal buio alla luce: scafi che galleggiano, corpi che si tuffano, bolle d’aria, il blu.

E allora c’è una marina flottante tra ponti e dinette, il mare una superficie come un’altra su cui semplicemente sostare: galleggiano le stronzate e le meschinità, le bocce di Cristal e le pasticche di Viagra, si sprecano le tartare di tonno, si brasano, a piedi nudi, i gamberoni rossi nel covo selvaggio che nessuno avrebbe dovuto conoscere, si scolano in tempi sbagliati vili e carissimi trebbiano in bicchieri di plastica, sciccosi vermentino e incompresi barbaresco. Sulle barche estive si consumano solitudini e smargiassate, le Jacuzzi sono la sola acqua vissuta, che anche solo per cagare si compra il bagno di una suite, a terra. Acqua viziata, un panfilo ignaro e incongruo dentro una coppa di champagne, desueta l’una, inevitabilmente sgasato l’altro.

E poi c’è il porto dei capelli e delle barbe arruffate, dei peli sul petto biondi e arsi dal sale, dei cessi a mare aperto, dei sigari e dei rum dell’Habana, c’è il porto delle maree, delle onde da tagliare, delle banchine da attraccare. C’è il porto delle nostalgie e dei tatuaggi sbavati. C’è la gente del porto che conosce il vento di Levante, l’iceberg del Titanic, e sa trovare un riparo. C’è un mare fisico, da rispettare, da toccare, da vomitare. C’è un caffè nell’alba cisposa, preparato da una sottoveste trasparente, tra corde e sartie.

Ci sono destini che si incontrano, vite che si scontrano, senza saperlo. Non c’è Moby Dick, il destino è privo di mistero, nessuna epica nel doppiare Capo Horn: le vite si sovrappongono solo un attimo, senza graffiare, scivolano via frenetiche, distratte dalle luci dei lustrini, perse nell’autostrada blu tra Ponza e Fiumicino. Grottesco, piuttosto che drammatico. Non potrebbe essere altrimenti in questa temperie carnevalesca.

Ma poi c’è Paola. Tommaso la guarda che prepara il caffè, la chioma riccioluta e corvina sulla pelle ambrata, salentina. Bella. La guarda tuffarsi di testa, senza tema per l’acconciatura, senza alzare uno spruzzo; la guarda mentre apre i ricci, quelli dai riflessi viola, le femmine, per gustarne le uova e dividerle con lui. E Tommaso si immerge come una volta, trattiene il fiato, sfidando il mantice dei polmoni, per infilzare un polpo con un forchettone da spaghetti: sa come si fa, lo stana e lo porta su, a lei. Paola lo afferra, tra femmine cinguettanti, incurante della bestia che le risucchia il braccio, lo sradica, lo batte, ripetutamente, forsennatamente: ondeggia al ritmo la splendida chioma, nera come l’inchiostro che la imbratta. Lo sfibra, gli rivolta la testa e subito, con un colpo netto di coltello, taglia un pezzo di tentacolo e lo mangia, tra i conati di vomito delle fighettine a modo. E lo skipper annoiato, fatto a pezzi anche nel proprio disincanto, se ne innamora. Come dargli torto.

Il mare spesso apre spiragli di verità, ora presentandoti il conto, ora portando con sé doni preziosi. In fondo c’è sempre un porto salato a ridosso del vento, un pescatore dagli occhi azzurri tra le rughe assolate, il fiocco di uno slip e uno specchio d’acqua finalmente limpida e pulita, in cui tuffarsi insieme. Di testa e possibilmente senza spruzzi.

Volevo essere un tuffatore

per rinascere ogni volta

dall’acqua all’aria…

all’aria.

Roberto Goracci – Acqua viziata – Ed. TEA, 2010 (pp. 236)

Procol Harum – A Salty Dog

Flavio Giurato – Il tuffatore


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