Lo chiamiamo social eating, tanto tutto adesso deve avere un termine anglosassone per fare figo. In realtà si tratta del fenomeno crescente di pranzi e cene organizzate nelle case private da appassionati, ma non solo: ci sono anche cuochi professionisti che fanno questa attività.
Non solo, ci sono anche delle vere e proprie residenze, non in periferia ma in case di lusso, dove ci si trova la sera pagando quattro soldi, spesso in nero.
Il fenomeno ha provato le ire dei ristoratori, una delle categorie più tartassate dal moloch burocratico italiano, soggetti a controlli e rapine fiscali un giorno sì e l’altro pure, per non parlare delle norme igieniche e sanitarie che ormai impediscono di somministrate prodotti fatti in proprio come il tonno.
Sono le leggi del mangiare infelice di Bruxelles.
Adesso sta per approdare in aula il disegno di legge alla Camera il diosegno di legge per la “regolamentazione della ristorazione in abitazione privata”. E allora ecco i limiti per gli home restaurant: massimo 500 pasti all’anno e 5mila euro di incasso (inteso come “utile”, ossia differenza fra ricavi e costi) per cuoco. E per evitare che in una stessa famiglia le cifre si sommino perché è più di uno a cucinare, un emendamento prevede che i 5mila euro di proventi siano calcolati “ad abitazione”.
Nessun controllo, invece, dal punto di vista sanitaria.
Un primo passo che, ovviamente, non lascia soddisfatti i ristoratori
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