Sora Maria e Arcangelo a Olevano: 100 anni di storia del fuori porta più amato dai romani

Pubblicato in: Eventi da raccontare
Antonietta Milana in cucina

di Floriana Barone

Cent’anni di storia, da Roma a Olevano Romano: la prima osteria “Sora Maria e Arcangelo” è stata aperta dai nonni di Giovanni Milana nel maggio del 1920, al Pigneto. Già a quei tempi nonna Maria preparava i famosi cannelloni, che poi sono diventati una vera e propria istituzione in paese. “Sono un cuoco della campagna romana, un oste romantico”, racconta con orgoglio Giovanni Milana, che, in quest’intervista, ripercorre tutta la storia del locale, soffermandosi spesso sul ruolo fondamentale di mamma Rita, cuoca infaticabile di Sora Maria e Arcangelo.

Quando ha avuto inizio l’attività ristorativa della sua famiglia?

È partito tutto da a nonna Maria e nonno Arcangelo: agli inizi del Novecento nonna lavorava a Roma come cuoca presso l’ambasciata inglese. Abitavano a San Lorenzo, ma erano originari di Olevano Romano. Nel maggio del 1920 i nonni hanno aperto un’osteria al Pigneto: Sora, Maria a Arcangelo. Conservo ancora una cartolina del locale datata 1929 in cui si vedono nonna e mio padre Primo, che all’epoca aveva solo 2 anni. I nonni hanno portato avanti questa attività fino al 1935. Poi, durante un sabotaggio, nonno è stato arrestato e deportato dai fascisti: era un convinto antifascista e rivoluzionario. E così Nonna è rimasta da sola con papà e gli zii: ha subito anche diversi danneggiamenti al locale da parte dei fascisti. Nonna Maria è tornata a Olevano tra il 1935 e il 1937, mentre, nel 1940, nonno è riuscito a scappare e a raggiungere il paese. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, tra il 1945 e il 1949, i nonni hanno avuto un paio di locali in gestione, tra cui una trattoria e una gelateria in piazza. Poi hanno rilevato il locale di via Roma, che all’epoca era di alcuni parenti. Mia madre ha iniziato a cucinare da Sora, Maria e Arcangelo appena sposata: aveva solo 18 anni. È sempre stata una gran lavoratrice: oggi ha 82 anni ed è il mio libro dei ricordi.

Cosa si cucinava nella prima osteria di famiglia?

Era una cucina romana tradizionale povera, con qualche influenza “borghese” soprattutto nella pasticceria, considerato il lavoro di nonna all’ambasciata: faceva spesso la zuppa inglese, i dolci con la panna e le paste frolle. Le stesse influenze presenti anche nel famoso cannellone di nonna Maria, preparato con il fior di latte, il pomodoro e il ripieno di carne. La cucina romana dei nonni comprendeva piatti come l’amatriciana e il quinto quarto. Esiste ancora oggi un libro di ricette che apparteneva a nonna Maria, che è morta nel 1964: mia zia lo conserva con cura e mamma me ne parla spesso.

C’è un filo conduttore che unisce la cucina dei nonni alla sua?

Certo, nel mio menu ancora oggi ci sono due piatti unici di famiglia: i cannelloni, appunto, preparati con la stessa ricetta tramandata da mia nonna a mio padre e poi a mia madre e le pappardelle alla bifolca, che vengono realizzate attraverso la lavorazione di carne di cacciagione, aromatizzate con arancia e ginepro. All’inizio degli anni Sessanta, Veronelli ha richiesto a papà proprio questa ricetta per pubblicarla sulla sua guida. Infine, le code de soreca che celebrano la tradizione territoriale e che, qui a Olevano, nonna faceva all’amatriciana.

I prodotti del territorio sono sempre stati protagonisti della sua cucina…

Sì, c’è stato un periodo intorno agli anni Cinquanta/Sessanta in cui i miei genitori utilizzavano molto i prodotti territoriali. Poi, negli anni Ottanta, è arrivato il boom della grande distribuzione, dell’industrializzazione, lo spopolamento delle campagne: in quegli anni l’economia contadina si era persa. Nel 1989 ho iniziato da Sora Maria e Arcangelo dopo la scuola alberghiera e dopo aver fatto alcune esperienze importanti anche all’estero, come quella in Inghilterra da mio zio a Rochester, nel Kent, che all’epoca aveva un ristorante con una stella Michelin. Fondamentalmente sono un autodidatta: sono entrato in trattoria perché avevo questo lavoro nel sangue. Agli esordi ho cavalcato l’onda della ricerca, girando il più possibile per imparare i meccanismi della ristorazione di qualità. Il cambiamento reale nella mia cucina è avvenuto dopo un periodo di stabilizzazione, dal 2007, quando ho iniziato a capire che il futuro della ristorazione era la campagna, il territorio. Poi c’è stata la crisi, con un vero ritorno all’economia rurale del nostro territorio e ho ricominciato a creare una rete di produttori territoriali, come la Fattoria Lauretti di Amaseno (FR) per la carne di bufalo, di maiale e chianina, l’azienda agricola Occhiodoro di Sgrurgola (FR) per il pollame, Le Caprette di Zsu (Altipiani Di Arcinazzo) per i formaggi, la ricotta e la carne di capra, l’azienda agricola di Antonella Neccia di Paliano (FR) per le erbe spontanee, le misticanze selvatiche, il luppolo selvatico, i fiori d’acacia per gli sciroppi profumati o i fiori di sambuco e tutti i piccoli frantoi che esistono qui intorno, anche se nel ristorante utilizzo soprattutto l’olio evo Quattrociocchi di Alatri (FR).

Quali sono i suoi piatti storici?

La mia cucina è totalmente legata al territorio, ma non è statica perché cambio spesso i piatti. Quando creo un nuovo piatto mischio il territorio con l’elemento innovativo e non faccio ripetizioni, come è successo per “le animelle di vitella come un saltimbocca alla romana”: le preparo in una padella con un po’ di burro e farina, le avvolgo poi con una fetta il prosciutto tagliato sottile di Bassiano, una foglia di salvia e le ripasso infine un minuto al forno. L’unico piatto sempre presente sul menu è la trilogia di Abbacchio Romano Igp, che acquisto da vari consorzi nel Lazio: in cucina utilizzo tutte le sue parti, dal quinto quarto alle cotolette. Il coscio e la spalla, ad esempio, vengono disossati e poi messi con un ripieno di mentuccia e pecorino.

C’è un piatto a cui è più legato?

I cannelloni, che da Sora Maria e Arcangelo sono un must: li facciamo durante tutto l’anno ed è sempre mamma a prepararli.

Chi è oggi Giovanni Milana?

Un custode della cucina e della campagna romana: sono un cuoco che ha portato avanti un progetto legato alla rinascita della campagna romana attraverso un lavoro minuzioso sulle materie prime. Mi reputo un oste romantico, legato al concetto di dimensione umana, umanesimo e di imprenditoria legata alla famiglia e al piccolo. Ho ereditato questa visione da papà, autodidatta e filosofo: per lui il futuro del lavoro era la dimensione umana. Papà ha avuto spesso l’opportunità di cambiare e di far crescere il ristorante, magari spostandosi altrove, ma non l’ha mai fatto perché credeva che lavorando con la giusta dimensione umana, ci sarebbe stato futuro per tutti.

Cosa ama fare nel tempo libero?

Mi dedico alla famiglia, amo andare in giro per ristoranti a trovare i colleghi e lo sport. In questo periodo di quarantena ho fatto molto giardinaggio e l’orto. Ho anche un hobby che negli ultimi anni ho un po’ abbandonato: viaggiare con lo zaino in spalla. Uno dei miei viaggi più belli è stato in Marocco: un paese che mi ha aperto la mente, con paesaggi meravigliosi e contrasti infiniti. Sono stato conquistato anche dall’Oriente: la Thailandia e l’Indonesia mi hanno regalato moltissimo a livello gastronomico e, nella mia cucina, c’è qualche contaminazione.

Sora Maria e Arcangelo ha compiuto 100 anni proprio durante l’emergenza Covid-19…

È stata abbastanza dura: nella mia vita ho sempre lavorato senza mai fermarmi, a parte qualche breve vacanza. In questo periodo ho avuto momenti di riflessione, di crisi e ho pensato al locale, ai dipendenti e alle loro famiglie, che ho aiutato a marzo. Ma poi è stata difficile anche per me a livello economico: proprio a gennaio avevo fatto alcuni investimenti per la cucina, che ho coperto grazie a un piccolo aiuto della banca. Di positivo però c’è stata la vicinanza con la mia famiglia: mi sono dedicato alla casa e ho riscoperto il piacere di cucinare tra le mura domestiche. Oggi sto già lavorando al nuovo menu, contattando tutti i miei fornitori: riapriremo il 29 maggio e mi auguro una ripartenza sprint.

Come si vede tra 10 anni?

Tra 10 anni ne avrò 63: potrebbe essere un punto di arrivo, ma anche un punto di partenza, se mio figlio decidesse di seguire le mie orme. Molto dipenderà da quanto riuscirò a fare: lavoro nel ristorante da quando avevo vent’anni e non mi sono mai fermato. Voglio essere positivo, soprattutto se penso a mia madre e alla sua energia da vendere.


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