Napoli, Osteria da Carmela. 50 anni di storia della cucina popolare tra Piazza Dante e Via Costantinopoli, un museo low cost a cielo aperto.

Pubblicato in: I vini da non perdere

Via Conte di Ruvo 21
Tel. 081 5499738
Sempre aperto: pranzo e cena h. 11,00 – 16.00; 18,30 – 23,00
Ferie: 15 gg in Agosto
Carte di credito e Bancomat: si

di Giulia Cannada Bartoli

Ci troviamo nel quartiere San Lorenzo, il cuore storico di Napoli. Per gli antichi lo era di sicuro, visto che, già dai tempi della fondazione greca, qui sorgeva l’Agorà, fulcro delle dinamiche sociali ed economiche, nei pressi dell’odierna basilica di San Lorenzo Maggiore.

Per darvi un’idea, qui oggi  risiedono quasi 60.000 abitanti.  Il quartiere è molto vasto: si parte da Via Sant’Anna dei Lombardi, che fa angolo, in Piazza XX Settembre, con lo storico Palazzo Rossi D’Angri Doria e la Chiesa dello Spirito Santo, per arrivare in Piazza Dante con lo storico emiciclo carolino del Convitto Vittorio Emanuele II, la cui origine risale ad un istituto gesuitico, fondato da Ferdinando IV nel 1768, che assunse, nel 1829, il nome di Collegio dei Nobili. Dopo essere entrato a Napoli, il 7 settembre 1860, come dittatore in nome di Vittorio Emanuele II, Giuseppe Garibaldi abolì l’ordine dei Gesuiti e dichiarò nazionali i suoi beni, l’anno seguente, il Collegio dei Nobili divenne il Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II.

La piazza, in origine era nota come Largo del Mercatello perché, oltre ad ospitare i mercati ed altri scambi commerciali, non rappresentava uno snodo particolarmente importante. Oggi, con al centro la   statua di Dante Alighieri ( Tito Angelini 1871, di recente restaurata), è uno snodo cruciale per la città, importante meta turistica ,con tre chiese monumentali: Santa Maria di Caravaggio, San Domenico Soriano e San Michele a Port’Alba.

Port’Alba prende il nome da Don Antonio Álvarez de Toledo, duca d’Alba e discendente di Don Pedro de Toledo, viceré spagnolo che la fece erigere nel 1625. Attraversando l’antica porta della città di Napoli, ubicata sul lato sinistro della piazza e risalendo Via Port’Alba, conosciuta per le sue numerose librerie, dove, a metà strada troviamo la Libreria Guida, diventata patrimonio dell’UNESCO negli anni novanta,

arriviamo in Via Costantinopoli, conosciuta come la strada degli antiquari. Poco più avanti, s’imbocca una seconda parallela, Via Bellini, dove scorgiamo il maestoso ingresso principale dell’Accademia delle Belle Arti.

La strada termina con l’ingresso alla Galleria Principe di Napoli.  Ancora da Piazza Dante, senza deviare, si prosegue sulla terza parallela, Via  Enrico Pessina, sede seicentesca delle Fosse del Grano. Da qui, proseguendo diritto si sale verso Capodimonte, svoltando a sinistra si va verso il Corso Vittorio Emanuele. Ai  lati scendono due traverse perpendicolari: Via Broggia sede di Palazzo Vittozzi, si tratta di un edificio particolare, in quanto è parte integrante della Galleria e, al centro del giardino, c’è una statua in travertino raffigurante San Gaetano, ritrovata, insieme ad un mascherone di marmo, nei sotterranei nel 1880. Probabilmente, il reperto è parte di un’antica Porta abbattuta, visto che il materiale corrisponde a quello utilizzato per le statue della chiesa di Santa Caterina a Formello, situata vicino a Porta Capuana.

L’altra strada laterale è Via Conte di Ruvo, intitolata ad Ettore Carafa, Conte di Ruvo, il quale assieme ad Eleonora Pimentel de Fonseca fu tra i martiri della rivoluzione napoletana del 1799. Su Via Ruvo si affacciano un lato dell’edificio dell’Accademia delle Belle Arti, il Teatro Bellini e, al civico n.21, la nostra meta gastronomica: l’Osteria Da Carmela, qui dal 1967.

Tra i tanti teatri di città, il Bellini è oggi ritenuto dai napoletani, il più bello. Meglio visitarlo di giorno ed inerpicarsi per le strette scale che conducono al teatrino della sala di prove o “Auditorium”, qui sono conservate ed esposte una grandissima quantità di belle locandine di vecchi spettacoli di teatro, pazientemente raccolte da Tato Russo che dal 1988 è il direttore artistico del teatro. Il sipario di scena raffigurante lo scoglio delle sirene, il soffitto, andato del tutto perduto, raffigurava una sorta di apoteosi di Vincenzo Bellini con gruppi di puttini in un cielo aperto, che reggevano gli stemmi di Napoli e di Catania. Ciò che faceva arricciare il naso a tanti critici allora, oggi fa sgranare gli occhi ai molti spettatori che concordano pienamente con il detto: “‘o San Carlo p” a grandezza ‘o Bellini p”a bellezza”. Grazie a Tato Russo, con la messa in scena dell’Opera da Tre Soldi di Bertolt Brecht, nell’autunno del 1988, il Bellini fu ancora una volta un teatro.

Facciamo ancora un salto indietro nel tempo, agli anni della seconda guerra mondiale, i vecchi abitanti del quartiere, inclusa parte della mia famiglia, ricordano che ogni palazzo, ogni bottega, aveva il proprio accesso ai rifugi sotterranei, tutti comunicanti tra loro.   Le piazze di Napoli hanno sempre esercitato un notevole fascino artistico, storico, antropologico. La loro storia accompagna quella della città da secoli. Esse sono parte integrante della vita cittadina, dai mercati o dai grandi eventi pubblici e politici, costituiscono un ulteriore elemento di fascino della città, da sempre straordinario esempio di mescolanze. Parlo della Napoli Capitale del Regno delle Due Sicilie, terminal, per usare un vocabolo moderno, di tutte le forniture che arrivavano dalle campagne del’interno, o, dalle vicine isole. In città tutte le meraviglie gastronomiche venivano rielaborate, ed ecco la magica nascita della cucina partenopea che si perde nei secoli, dalle cucine dei nobili con i famosi Monzù, passando per trattorie e osterie di popolo, con prodotti di lusso e materie povere, si sono tramandate ed elaborate nel tempo, le ricette che sono alla base di una delle più alte manifestazioni di arte culinaria al mondo, senza campanilismo alcuno: la cucina napoletana.

Inutile discutere, da qui sono partiti tutti, come i Monzù hanno subìto l’influenza della cultura partenopea, così, l’avanguardia di oggi

ha profondamente studiato la tradizione per arrivare dov’è: Gennaro Esposito e Massimo Bottura insegnano. Qui non si imita, si interpreta, dopo aver sistematicamente e appassionatamente studiato il passato.

Torniamo in Via Conte di Ruvo, queste zone verso la metà dell’800 sono state la soluzione abitativa per la borghesia napoletana: il piano del 1839 di Ferdinando II di Borbone prevedeva, infatti, aree di espansione ad occidente per le residenze aristocratiche e borghesi.

Fu così che la zona divenne, conformemente a quanto accadeva in Francia, un nuovo quartiere borghese con la realizzazione di una galleria commerciale con funzioni artistiche e culturali. Tuttavia, un aneddoto gastro- antropologico conferma l’impossibilità di non contaminazione a Napoli tra classi popolari e borghesi. A poche centinaia di metri da Via Conte di Ruvo, c’è un piccolo vicolo, Vico Giovanni Brombeis, nelle vicinanze del famoso Cavone, apparentemente insignificante, invece proprio da qui, ogni mattina, fino a tutti gli anni ’70, scendeva Fortunato, il venditore di taralli e pagnottielli.

Fortunato aveva un carretto da venditore ambulante che si era costruito da solo, montando un canestro di vimini sul telaio di un carrozzino da neonato, in alto una piccola insegna “la “Ditta Fortunato resta chiusa il lunedì”. Il canestro lasciava arieggiare e manteneva fresca la merce che Fortunato copriva con una coperta di lana per trattenere il calore. I taralli e i pagnottelli venivano forniti da uno storico Vapoforno di via Concordia. Lungo la discesa, per Via Toledo, Piazza Carità, Via Tarsia, Vico San Domenico Soriano, Vico Giovanni Brombeis, Vico Francesco Saverio Correra, Via Conte di Ruvo e Piazza Dante si diffondeva una “voce” cantilenante, unita ad un profumo indimenticabile: Furtunat’ tene a’ rrobba bella ‘nzogna ‘nzogn!- e sempre sorridente chiamava nomi di donna: Maria! Luisa! Elenaaa! I bambini ridevano, mi racconta mia madre, ma non lo si poteva sfottere. Rispetto. Le sue grida al mattino e il suo inarrestabile sorriso erano come un buon augurio per tutti. Erano gli inizi degli anni Settanta. Fortunato O’ Tarallaro… Al secolo Fortunato Bisaccia. venditore famosissimo in tutta Napoli e oltre, con i suoi taralli sugna e pepe (‘Nzogna e pep’) è  una figura entrata a pieno titolo nell’immaginario collettivo della napoletanità, popolino, nobili e borghesia.  I suoi taralli erano gustosissimi, unici, croccanti, ’nzogna e ‘ppepe, impreziositi da tantissime mandorle ben tostate, ancora caldi , di quel calore che scalda l’anima al solo ricordo, costavano 10 lire… Fortunato fu l’ultimo venditore girovago di taralli, e percorreva in lungo e largo la città di Napoli, sempre allegro, era un vecchio ometto piccolo e grassoccio con delle gambe arcuate, nascoste da braghe consumate che, in origine, non dovevano essere state sue: troppo larghe; in primavera e in estate portava una maglietta di cotone bianco a mezze maniche e un berretto a caciottella di panno bianco; d’inverno sostituiva la caciottella bianca con un cappelluccio di lana a più colori ed infilava una sbrindellata giacchetta arrivata da chissà dove; completava l’abbigliamento invernale, una sciarpa di lana variopinta e unta, che portava in modo sacrale, come un sacerdote indossa la stola e che gli avvolgeva il viso segnato dal tempo, una rete di rughe profonde, sulle quali brillavano tuttavia, due occhi vivaci e da scugnizzo. Poi passarono gli anni ed un brutto giorno, nel 1995, la cantilena scomparve, magari, Furtunato tène ‘a rrobba bbella! ‘Nzogna, ‘nzo’, aveva allargato il suo giro ed era passato a proporre a San Pietro ed a tutta la corte celeste i suoi taralli ‘nzogna e ‘ppepe, dopo averli venduti in terra a nobili e pezzenti. La frequentazione da parte di diverse estrazioni sociali ha caratterizzato, sin dalla loro nascita, le trattorie di Napoli, che raggiunsero grande splendore verso la fine del XVIII secolo e l’apice nel 1837 con la pubblicazione de “ La cucina teorico pratica, ovvero il pranzo Periodico di otto piatti al giorno” di Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino.

Da allora molte cose sono cambiate: torniamo ai nostri giorni per ritrovare una Napoli dove la ristorazione storica ed accessibile resiste con un “esercito” solido e sparpagliato di vecchie trattorie che sanno offrire ancora il meglio della cucina verace, pochi semplici piatti per tutte le tasche. Il resto è privilegio, tranne poche eccellenti espressioni rispettose del passato, di una nuova generazione di ristoratori e clienti votati al lusso e alla scenografia sic et simpliciter. L’alternativa è il consumismo omologato stile fast food,

spesso più costoso di un salutare e magnifico piatto di ziti e carne alla genovese. Oh , finalmente , si parla di piatti. Dov’eravamo? Ah sì, al n. 21 di Via Conte di Ruvo, qui nel 1967 Vincenzo e Carmela Gargiulo aprono la classica mescita con cucina: Vincenzo si dedicava al vino e Carmela ai fornelli. La sala era piccola e molto caratteristica , dalla cantina c’èra un accesso ad un ex rifugio della seconda guerra mondiale,  ed  il locale era strapieno di oggetti della tradizione popolare. Un cliente dell’epoca mi racconta dell’accoglienza familiare, del sorriso di Donna Carmela, dei suoi piatti semplici di casa, la mozzarella in carrozza da favola, pasta e fagioli e una mitica parmigiana di melanzane, insomma tutti i piatti tipici della cucina di mammà.  C’era tanto fermento erano gli anni della protesta, il ’68, la stagione d’oro del teatro Bellini, gli attori, dopo il teatro si parlavano da un tavolo all’altro. Anche la Compagnia di Roberto De Simone e gli Inti Illimani sono stati qui dopo la “CANTATA PER MASANIELLO” di Roberto De Simone e la sua magistrale orchestrazione del famoso brano  “el aparecido ” . Dopo lo spettacolo un’esaltante perfomance  live  in osteria. Carmela e Vincenzo sono andati avanti  fino agli inizi degli anni ’90, poi la stanchezza si faceva sentire, i figli  erano indecisi,  così l’osteria restò chiusa per un paio d’anni. Nel 1994, il figlio Rosario Gargiulo riprende l’attività per onorare la tradizione familiare. Nel 2006  però Rosario non se la sente di continuare da solo e cede. L’ Osteria,  non ha mai cambiato nome,

nè tipo di cucina, nè, tantomeno l’atmosfera.  Fino al 2009 a passa ad una ristoratrice del beneventano, per  tornare poi, agli inizi del 2010, quasi in famiglia.  Giuseppe Errico,  infatti , è amico dei figli di Vincenzo e Carmela e provene da una famiglia di storici ristoratori del Vomero.

Il locale è rimasto architettonicamente intatto, archi e volte non sono stati toccati, l’arredamento in legno è semplice, ispirato all’antica eleganza napoletana, i piatti sono di semplice e capiente ceramica vietrese, in alto sotto un arco una meravigliosa scultura lignea della Madonna osserva benevola gli astanti.

Mi dice Giuseppe che è lì da sempre.  In terra ancora le due grosse pedane in legno che portano giù in cantina.  Una decina di tavoli, ambiente raccolto, alle pareti, “nature morte” realizzate da un docente dell’Accademia di Belle Arti all’epoca di Vincenzo e Carmela e una radio d’epoca che Giuseppe si porta dietro come la coperta di Linus. La cucina è ampia, semplice e pulita, qui regna lo chef Salvatore Fiore, napoletano doc con oltre 40 anni d’esperienza in tantissimi locali tra Vomero e Lungomare, un’aria da finto burbero,  che poi si scioglie al primo sorriso,

quando mi racconta che suo padre è stato per quasi 50 anni il custode del Circolo Savoia e del ristorante la Bersagliera e che per questo motivo, aveva avviato tutti i suoi figli al mestiere di cuoco. Praticamente, esclusi i contorni ed alcuni secondi e sughi più lunghi da preparare, tipo polpette, ragù, genovese, la sua cucina è ad personam: ad ognuno il suo pentolino, o pentolone, a seconda delle porzioni. Il personale di sala varia con i turni, praticamente qui non si chiude mai , si apre alle 11,00 e si chiude alle 16,00 per riaprire un paio d’ore dopo, fino a tarda sera, per il dopo teatro. Il menù non cambia da pranzo a cena,la differenza sta nel numero delle portate: a pranzo quattro primi, quattro secondi, una marea di contorni, frutta fresca e un paio di dessert.  La sera la scelta alla carta è leggermente più ampia , soprattutto per i secondi di carne e di pesce. Il vino della casa arriva dal beneventano, aglianico e falanghina che fanno sempre degna figura, oppure una bella selezione di vini campani e nazionali, o birra. Non c’è carta dei vini, le bottiglie sono esposte, i clienti scelgono da soli. In tavola olio extravergine irpino ravece.

Giuseppe, il titolare, arriva ad ora di pranzo inoltrata, la mattina si dedica agli acquisti: il pane da un forno di fiducia in zona Fuorigrotta,

idem dicasi per la carne, il pesce al mercato di Pozzuoli , frutta e verdura in zona, pasta industriale di gran qualità. Peppino come lo chiama il personale, può dormire tra due guanciali, il personale è veterano e di fiducia. Antonio Beneduce il primo cameriere è qui da vent’anni, conosce tutto e tutti. Poi ci sono due dolcissimi ragazzi dello Sri Lanka, sono qui da un po’, sono volenterosi e imparano velocemente. Da quando è andata via Carmela, solo uomini in cucina, mah…

La clientela è mista e si avvicenda in vari “turni”: i turisti – tanti – sono quelli che arrivano per primi,

poi gli studenti della dirimpettaia Accademia delle Belle Arti, un po’ più tardi i docenti e i professionisti dei tanti studi della zona. Funziona, come d’abitudine in queste osterie, anche il servizio di asporto del “cucinato”. I primi sono quelli canonici: magnifica pasta e ceci,

linguine con il soffritto, penne alla bolognese, al pomodoro, o, con funghi e mozzarella.

Naturalmente, i must non mancano mai: ragù e genovese sono sempre disponibili, a Carnevale la lasagna. In bella vista il bancone di contorni e secondi: tante verdure, veri e propri contorni, carciofi, scarola affogata, friarielli, broccoli, patate fritte di casa, tagliate al momento, zucchine alla scapece, melanzane alla griglia,

o, i piatti unici, tipo parmigiana di melanzane, involtini di zucchine o, melanzane con provola e prosciutto.

Tra i secondi , la carne alla genovese, i crocchè di spinaci e ricotta,

le polpette di pesce, il polpo all’insalata o i polipetti alla “luciana”. Da fare al momento carne alla brace, o spigola all’acqua pazza con patate.

I dessert, anzi, i dolci, (siamo a Napoli) sono i classici: crostate, tiramisù, caprese, babà e pastiera.

Veniamo alle dolenti note…macché!

Ad ora di pranzo , per primo, secondo, frutta, dessert, bevande della casa e caffè, spenderete appena 10 euro, niente precotti, materie prime ottime.

Di sera cenando alla carta spenderete tra i 20 e i 30 euro , dall’antipasto al dolce, esclusi i vini. Anche questa è Napoli, e se aggiungete 50 centesimi porterete a casa anche una cartolina souvenir del Teatro Bellini. Se poi, come si dice a Napoli, tenete “i vizi”, a pochi metri in Piazza Dante , al mitico Caffè Mexico (niente a che vedere, escluso quello di Via Scarlatti al Vomero, con gli altri omonimi in città) potete godervi “ ‘a tazzulella ‘e cafè “Harem” unico e insuperabile, ovviamente in vetro,  amaro e…macinato al momento,

un investimento…0,80 centesimi, ma, dov’è un’altra città così? .ascoltate,  ci pensa Brigida…


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