Amici miei a Parigi-2. Paris, L’Atelier Etoile de Joel Robuchon sugli Champs-Elysées. Il ristorante è morto, viva il ristorante

Pubblicato in: Città e paesi da mangiare e bere, Parigi

A ciascuno il suo. Ciomei, Fiordelli, Maffi e Pignataro hanno girato e mangiato un paio di giorni a Parigi. Quattro racconti per quattro pasti pubblicati su Luciano Pignataro WineBlog e Consumazione Obbligatoria.
Ecco il secondo

Avenue des Champs-Elysèes, 133
Tel.01-4723.7575
www.joel-robuchon.net

Abbiamo fatto appena in tempo a provare Le Table, ora Robuchon ha chiuso con la concezione classica del ristorante, niente più camerieri ossequiosi che vi girano intorno, potete mangiare al bancone sul modello del sushi bar oppure sedervi in uno dei tavoli per un servizio più essenziale.

Personalmente non credo che il ristorante sia finito, la novità è che non è più l’unico posto dove poter godere dei piatti dell’alta ristorazione

Un po’ questa tendenza è stata determinata dalla crisi, un po’ dallo tsunami di giovani cuochi molto preparati che non sempre hanno i soldi o gli investitori per aprire un ristorante classico nel quale i costi sono sempre elevati, infine incide molto il ritmo della quotidianità sempre più veloce in città dove non c’è più tempo, e soprattutto voglia, di stare due o tre ore seduti.
In fondo il segreto dell’immortalità della pizza napoletana è proprio la risposta a questa esigenza.

 

Il nuovo covo di Robuchon è a due passi dall’Arco di Trionfo, al piano interrato del Drugstore. Servizio preciso ma essenziale, hotellerie del quotidiano, cucina a vista per gli appassionati, atmosfera da night. Ed è qui che proviamo un po’ di piatti per fare il confronto con la compianta Table e l’altro Atelier a Port Royal.

Avremmo preferito un secchio per questo piatto morbido e goloso. Qui come altrove l’influenza italiana, in questo caso emiliana, è evidente. La sensazione finale della breve trasferta parigina è che l’alleggerimento progressivo passa attraverso le contaminazioni sempre più marcate dei prodotti italiani e dello stile asiatico di presentazione. Al tempo stesso il piatto resta piantato Oltralpe, non c’è colonizzazione gastronomica, ma una fusion che continua a pensare francese.

 

Un altro elemento di semplificazione è il nome dei piatti. Mentre noi italiani siamo fermi ad un barocco ornamentale spesso al limite del ridicolo, a Parigi si indica solo il prodotto principale portante e, in sotto titolo, una breve spiegazione
Qui abbiamo
LE CAVIAR
dans une dèlicate gelèe recouverte d’une onctuese créeme de chou-fleur
che in italiano sarebbe diventato

Caviale maggese dell’Alto Caspio con gelèe di Prosecco Cartizze 2005 in cupola di crema del cavolfiore di Tricarico raccolto da Nonna Giuseppina e gocce di sedano bianco del Lazio

A cheffì: questo stile non si porta più, abolitelo subito.

 

Semplicità anche nel pane: un solo tipo, buonissimo, come ovunque a Parigi.

Il rapporto tra caviale e cavolfiore è ben studiato da Robuchon da molto tempo: la prima volta lo beccai ad una presentazione di Bruno Paillard al Sain Regis a Roma una decina di anni fa.
Che dire: equilibrio perfetto, io poi sono goloso di creme e cremine e ne avrei caricato una batteria.

 

Arriva la tempura di scampo e salsetta di basilico: tutto perfetto, ma noi non adoriamo né la tempura nè i crostacei.

Il tema della Saint-Jacques è un po’ come sistemare il figlio scemo: ogni chef deve affrontare questa assoluta mancanza di sapore il cui contributo al piatto si riduce alla consistenza.
Ed ecco il piatto capolavoro della giornata, proprio il gioco sotto i denti è garantito dalla fregola sarda (i francesi ci studiano!) con una emulsione di aromi e agrumi che regala una spinta potentissima al piatto.
Applausi e unanimità di consensi da parte dei tre moschiettieri (io, Fiordelli e Ciomei e il guascone D’Artagnan alias Maffi).

Ancora un piatto di pesce, prima di passare alla linea carne/vino rosso che scandisce i tre tempi della degustazione francese.

Per gli italiani di costa, soprattutto siciliani, questo è davvero un piatto quotidiano, Robuchon lo ha copiato e ha inserito la spinta citrica necessaria. Ovviamente la differenza è nella materia prima, il rombo atlantico non ha nessuna possibilità di competere con quello, più salato, mediterraneo e per noi è solo un momento da relegare nell’Olimpo della curiosità.

Ora viene per me la parte sempre più difficile: la carne, che non amo, e il dolce, che mi lascia sostanzialmente indifferente.

Assaggio la quaglia perché non era bastata la scodella di puré fuori programma che ci siamo fatti dare per capire se è più buono quello di Robuchon o quello di Vizzarì.

Qui il delizioso pennuto è farcito di foie gras: torniamo in Francia e ricordiamo che questo piatto era in carta anche a La Table.

A Parigi l’agnello è sempre presentato come lattante, ma a giudicare dal grasso che ho visto in giro delle due l’una: o sono agnelli bamboccioni o hanno mangiato al McDonalds’. Questo è essenziale ma qualsiasi romano o abruzzese lo giudicherebbe un banale scottadito.

D’Artagnan prova infine il vitello.

Immancabile e ben eseguito il foie gras, fresco e tonico

Molto leggero anche il dolce

CONSIDERAZIONI FINALI

L’esperienza da Robuchon è sicuramente appagante ed equilbrata nel prezzo: il menu degustazione costa 150 euro e comprende nove portate, ma ovviamente prendendo un paio di piatti ve la potete cavare con la metà o poco più.
La cucina è ormai ben conosciuta e credo ci sia poco da aggiungere: sicuramente non è una esperienza dalla quale si può prescindere quando si viaggia gastronomicamente in Francia.
C’è inoltre finalmente un motivo per tornare sugli Champs-Elysées, ormai avenue turistica senza se e senza ma.
Qui dove cento anni fa Marcel spandechiava per Albertine.


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