Tabi Restaurant a Santa Lucia. L’eterno ritorno del sushi di qualità con Ignacio Ito

Tabi Restaurant

di Ugo Marchionne

Premessa

Santa Lucia, uno dei centri nevralgici della Napoli Bene in cui troviamo ancora echi del tempo che fu. In cui l’ambiente frou-frou si fonde con un’umanità ancora radicata alle tradizioni, un’umanità che resiste al logorio del tempo che scorre. In questa meravigliosa, conflittuale e splendida cornice, non proprio seafront ma a quattro passi dal limite nord del lungomare che guarda al Vesuvio, sorge il Tabi Restaurant. In sala ritroviamo dopo l’esperienza al Sancta Sanctorum il bravissimo Stefano Parisio. Padrone dell’Hoshizaki è il maestro Ignacio Ito, per mesi fuoriclasse svincolato e messo sul mercato che finalmente ha trovato una nuova casa nella quale esprimere il suo enorme potenziale. Il nome è altisonante. Tabi. Il Viaggio. Jules Verne diceva che alcuni viaggi conducono più al destino che ad una destinazione. Sin dalla sua nascita il Tabi ha riscosso una grande attenzione pur mantenendo un basso profilo comunicativo. 

La mano di Ignacio Ito è innegabilmente una componente evidente del Tabi Restaurant. Sushi, componenti pan-asiatiche e cucina giapponese cotta. Idee intriganti quasi sempre concretizzate. Il coraggio della carta, così ben strutturata rischia di rimanere ancorata alla predilezione tutta partenopea per le sushi selection già viste mille e mille volte. I passaggi di cucina per chi si fa guidare invece sono tutt’altra cosa. Un viaggio nel vero senso della parola in cui finalmente la materia prima la fa da padrone. Il passato del sushiman sembra essere solo una lontana impronta, uno stampo. Più attenzione per il pescato locale, una mano più trattenuta ed un estetica minimale. Il barocco nipponico di Ignacio Ito è sempre presente ma ha raggiunto una nuova fase, più sottrattiva. Tre o quattro componenti al massimo. Ventresca di tonno in sezione cubica con Caviale e con Calamaro e Riccio di mare di Santa Lucia. Consistenza avvolgente e ottima sensibilità di accostamento. Due bocconi soddisfacenti e ben strutturati. Involtini di Otoro, King Crab, Caviale e Aioli di Granchio Reale. Due piatti fini ed eleganti che racchiudono in sè la summa descrittiva della cucina dello chef. Così barocca, cosi piena di colore e sapore. Compiutamente carioca, completamente giapponese nella forma e nella tecnica.

Nigiri. Otoro, Ricciola, Engawa e per concludere il simbolo. Lo sgombro. Marinato e dunque serivito con un dot di limone e cipollotto. Riso lievemente da rivedere. L’esperimento del nishiki a temperatura corporea è geniale ma nel caso di specie i gradi di servizio erano decisamente alti, rendendo il riso troppo caldo. Fattura e precisione inappuntabili. Tanto cuore nelle presentazioni, i nuovi piatti di service nati da alcuni schizzi di Stefano Parisio, ricordano il mare nelle sue diverse profondità e tonalità di fondale.

Sperimentale per certi versi la cucina del Tabi, che si avvale di un Aurelio Santoro capace di tirar fuori due piatti davvero indovinati. Ventresca scottata con caviale e hummus di ceci e avocado, seguito dal segreto di Iberico fritto e dunque servito in agrodolce. Sorprendente il primo, con una salsa apprezzata da tutti i commensali al tavolo ed una resa palatale davvero unica. Più comune il secondo, inflazionato da influenze sino-asiatiche che fanno emergere l’estrema qualità più che il gusto complessivo della materia. Coraggiosa e lodevole l’idea di mettere in campo la sezione collare del maiale, così popolare, nobilitandola con ben tre diverse declinazioni nel menù. Un approccio alle spese davvero oculato e ben strutturato. Un taglio meno pregiato che conserva tutta la sua dignità ed il suo sapore. Miglioratissimi i Dim Sum. Ancora più consistenti e polposi. La produzione propria è davvero la cartina di tornasole della volontà di imporsi nel panorama da subito.

Si ritorna su tre classici. Il tiradito di pesce bianco e salmone, il carpaccio di astice e tartufo bianco così seducente e l’Arani di testa di cernia. A dispetto di quanto si possa pensare la cottura è una cottura molto più rapida di quanto si creda, ma tale da fondere le cartilagini e la componente grassa del pesce, rendendo questo piatto veramente unico nel suo genere. Forse la nota più teatrale della serata che non ha restituito quanto altri piatti hanno fatto. I carpacci nella loro semplicità sono diretti e impattanti, dei quali sorprende la versatilità di taglio e di tecnica impiegate.

Coccole finali i Gunkan, I Bun e un mio omaggio al tavolo. Uno dei miei rossi del cuore. De Gaeta, Aglianico dei Campi Taurasini.

Conclusioni

Nuova apertura davvero molto convincente. Location comfortevole e rassicurante. Il Tabi anche se solo all’inizio della sua ascesa è già consolidato per retaggio degli attori coinvolti. La materia prima si assesta su un livello alto. Il servizio di sala diretto da Stefano Parisio è puntualissimo e la novità della zona cocktail e di una drink list dedicata davvero rende l’insieme unico. Si mangia davvero bene, questa è una summa più che descrittiva di un progetto appena nato che conquista sia per estetica che per proposta complessiva. Speriamo che la città possa accogliere il Tabi come si conviene. Un’apertura del genere sicuramente rende più variegata e vibrante la scena nipponica della città di Napoli. Seguiremo da vicino la loro evoluzione e le tappe della loro scalata al successo.

Via Raffaele de Cesare, 35 (5,33 km)
80121 Napoli
Tel. 081 051 3280


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