Maurizio Cerio Story: il vero mestiere del bravo sommelier è ascoltare, non parlare

Pubblicato in: Personaggi

di Antonino Siniscalchi

«L’abbinamento cibo-vino è come un matrimonio in perfetto equilibrio tra le parti, dove nessuno dei “coniugi” deve prevalere sull’altro». Cinquantasette anni, Maurizio Cerio è il maître sommelier del Don Alfonso 1890, due stelle Michelin di Sant’Agata sui Due Golfi, ha un’idea ben delineata dell’arte di consigliare il buon bere, il bere consapevole. Gioviale, il sorriso mai banale in sala (allegro e spensierato con gli amici, uno sguardo al suo profilo facebook, prego), ironico quanto basta, professionale nel dialogo con il cliente, aperto al culto dell’ospitalità con signorilità e competenza, sempre pronto ad illustrare l’etichetta che caratterizza il vino consigliato.
Maurizio Cerio opera nel tempio dell’enogastronomia della penisola sorrentina da quasi trentatré anni (dal 30 settembre 1988), ma assicura che le tappe del suo itinerario da percorrere sono ancora tante, tutte caratterizzate dalla curiosità del primo vino che catturò la sua innata curiosità. Ha iniziato come «chef de rang», ha raccolto una occupazione presa al volo, grazie all’interessamento di una parente, una conoscente di Livia, la moglie di Alfonso Iaccarino, la coppia ambiziosa e intraprendente che ha dato una svolta epocale all’immagine dell’enogastronomia del territorio, sulla scia di una tradizione che affonda le sue radici al 1890, quando il nonno di Alfonso avviò la prima pensione a Sant’Agata sui Due Golfi, frequentata negli anni venti del 1900 da Salvatore Di Giacomo. Un brand che vanta ramificazioni e successi in Italia e nel mondo. L’ultima perla «Casa Don Alfonso» a Saint Louis, che ha segnato il ritorno negli Stati Uniti della famiglia Iaccarino, sulla scia delle consolidate partnership di Toronto, Nuova Zelanda, Macao e Lavello.
Come si ispira nella scelta del vino che deve accompagnare una pietanza particolare?
«Ci sono abbinamenti dove il vino deve esaltare un piatto o viceversa. Nel mio caso cerco sempre di creare un effetto continuo piatto-vino-pulizia del palato. Se sono stato fortunato negli abbinamenti traspare dagli occhi dell’ospite».
Abbinamenti studiati lontano dalla sala?
«Non studio mai gli abbinamenti a tavolino. Immagino le caratteristiche del cibo e si apre la “finestrella” mentale sul vino giusto per quel piatto. L’abbinamento, comunque, è un mondo dove anche la mente deve essere aperta. Non si può concentrare solo sul vino, ma deve spaziare anche su distillati, birre, cocktail, long drink e, perché no, anche sulle tisane».

 

Sommelier al Don Alfonso

Come si diventa sommelier di Don Alfonso 1890?
«Ho conosciuto il “Don Alfonso” grazie ad una nipote della signora Livia: mi disse che i patron del locale cercavano personale di sala. Per me, la ristorazione era un mondo completamente nuovo. All’inizio, come si sul dire, ero come Alice nel paese delle meraviglie (oddio anche ora…, si affretta a precisare, ndr). Così è iniziata la storia infinita con i “Iacca”, come amo chiamarli io, in via confidenziale, ma sempre con grande rispetto dei ruoli. Pian piano ho acquisito la loro fiducia. Nonostante ciò, all’inizio, è stata dura “scalzare” la signora Livia, in termine buono, ovviamente. Non è stato semplice e, ancora di più, meritare la fiducia del cliente che, fino al giorno prima, si rivolgeva a lei per ogni esigenza, scelta del vino compresa…».
Come si differenzia l’immagine del locale nel percorso dalla generazione di Alfonso e Livia a quella di Ernesto e Mario?
«La generazione si differenzia? Non penso proprio. Con la nuova generazione c’è solo un consolidamento di principi saldi, fondati sulla serietà nella pianificazione del lavoro e l’accoglienza dell’ospite. Certo, nel terzo millennio si è adeguata alla tecnologia che ti permette di lavorare con più serenità. Quelle innovazioni introdotte dalla nuova generazione hanno trovato spazio in quelle angolazioni dove quella passata ha avuto un po’ dì riluttanza. Tant’è!».
Personaggio simpatico, a tratti istrionico, attento, appassionatissimo nel suo lavoro che caratterizza con professionalità e attenzione dei particolari. Passione, professionalità, o cos’altro?
«Ho iniziato questo lavoro per opportunità, ma ben presto mi sono reso conto che era in gioco più di una semplice opportunità. A quel punto, ho messo sul piatto la mia idea di questo lavoro. Sono un creativo. Il vino per me è arte. E l’arte si manifesta con estro e fantasia senza trascurare i dettagli. Il vino, in fondo, rispecchia l’essere umano: nasce, vive, evolve e muore».
Ha mai sentito l’esigenza di percorrere nuovi itinerari professionali?
«Sinceramente, mi sento parte integrante di questo locale. Il mio curriculum è veramente “corto”. Professionalmente, “nasco” trentatrè anni fa, qui al “Don Alfonso”. Forse, da qui andrò in pensione. Ormai, faccio parte dell’inventario dei beni mobili. Mi collocano in una nicchia quando chiudiamo e mi rispolverano quando riapriamo. Quindi, sono nato, cresciuto e…».
Si domanda cosa sarebbe stata la sua vita, la sua attività professionale, non incrociando la strada che l’ha portata qui?
«È un pensiero sul quale spesso mi soffermo. Sì, perché ovunque vai, in ogni parte del mondo, quando emerge l’appartenenza alla ristorazione o al settore enologico, ti riconoscono con il secondo cognome: Maurizio Cerio don Alfonso. A volte si crea un alone di fascino e curiosità proprio perché apparteniamo a un ristorante famoso e prestigioso. Così, anni fa, mi sono dato una risposta, mettendomi in gioco, senza secondo cognome, solo Maurizio Cerio, con l’obiettivo di verificare cosa ero in grado di fare. Sono andato a lavorare, dove nessuno mi conosceva ed ho potuto testare con soddisfazione che qualcosina ero in grado di fare. Ognuno di noi sa aprire una bottiglia di vino e servirla, ma è come lo si fa, mettete qualcosa di personale. Ognuno di noi ha anche una debolezza che diventa un punto di forza che caratterizza professionalità e mestiere».
Alfonso e Livia, l’approdo al Don Alfonso, quindi, un segno tangibile nella sua vita, nella sua attività professionale.
«Ho cominciato a lavorare solo per me stesso, ma Livia e Alfonso Iaccarino sono riusciti ad incuriosirmi. Grazie a loro ho cominciato a frequentare i primi corsi da sommelier. Incrociare il “Don” è stato come aprirsi ad un mondo nuovo. Sono, per mia natura, una persona frenetica che non si ferma mai. Dico sempre che se avessi fatto un lavoro dietro una scrivania sarei morto dopo una settimana. Il “Don” è in continua evoluzione, anno dopo anno, è come andare a lavorare in un ristorante di nuova apertura, è ancor di più per me che ho a che fare con i vini: quando li ritrovo nel bicchiere non sono più gli stessi che avevo lasciato in cantina l’anno prima ma evoluti a volte anche in peggio».
Nella cura della cantina e nella lista dei vini, quanto incide la competenza di Alfonso e della Famiglia?
«Ci tengo a precisare che la cantina nasce con il “Don”. Ora, sinceramente, mi lasciano libero arbitrio, con l’opportunità di mettere in lista etichette interessanti, secondo il mio punto di vista. Capita, talvolta, di discutere con i “Iacca” sulle caratteristiche di un vino, ma sempre con una finalità costruttiva per l’immagine del locale. Opportunità importanti, peraltro, perché il vino è confronto, incontro e scontro».
Sposato con Maria Teresa, due figlie Claudia e Simona, nonno da due mesi, una vita che a tratti sembra un romanzo. Prima di approdare a Sant’Agata sui Due Golfi, come si sussegue l’itinerario di Maurizio Cerio?
«Sono nato a Civitavecchia 57 anni fa, cresciuto nell’alto Lazio, precisamente a Viterbo, da madre sorrentina e padre laziale. Ecco perché mi considero uvaggio di un aglianico campano e un Merlot dell’alto Lazio. Poi, con mia madre, siamo rientrati a Sorrento e pian piano si è sviluppato il mio itinerario che a venticinque anni mi ha aperto le porte del “Don Alfonso”».

“Mi ricarico quattro mesi a Miami”

Metodico, razionale nel lavoro, ma anche attento a non lasciarsi trascinare dal ritmo della quotidianità professionale per ritagliarsi i suoi spazi. Come?
«Il lavoro mi assorbe in maniera maniacale, ma ho bisogno anche dei miei tempi di recupero. Non a caso, ogni anno, sono opportuni e necessari i quattro mesi di vacanza a Miami. Rigorosamente da solo. Le vacanze o si fanno da soli o non sono vacanze. Ringrazio mia moglie perché mi ha sempre appoggiato nelle mie scelte, nel mio lavoro, ma non solo. Con un lavoro come il mio trascorro poco tempo a casa, ma lei, dopo trentasei anni di matrimonio si è resa conto dell’importanza dell’impegno per la professione, mi è sempre stata vicino».
Cosa si sente di suggerire ai giovani che si avvicinano a questa professione!?
«Ai giovani che si avvicinano a questo lavoro suggerirei di ascoltare più che parlare. La nostra saccenteria con i clienti, a volte, crea barriere, distacco. Noi dobbiamo essere votati per mettere a proprio agio l’ospite, non per far vedere quanto siamo bravi. È giusto rispondere con professionalità e competenza a un cliente che ti fa una domanda. Mi è capitato di andare a cena e al momento di ordinare il vino, la persona addetta, più che consigliarmi si imponeva con: “ho visto quello che mangia, lei deve bere un…”. Così non va bene. Il vino mi ha dato tante lezioni di vita: la prima è stare zitto e ascoltare».


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