Il Pagliaccio a Roma, super Anthony Genovese e il tema della sogliola

Il Pagliaccio, Anthony Genovese

Il Pagliaccio aRoma
Via dei Banchi Vecchi, 129
Tel. 06.
6880 9595
Aperto a pranzo e a cena
Chiuso: domenica, lunedi, e martedi a pranzo

www.ristoranteilpagliaccio.com

Sono ormai dieci anni che varchiamo la soglia del Pagliaccio e non finiamo mai di stupirci per i continui progressi, la raggiunta maturità di Anthony Genovese, un cuoco della generazione dei cinquantenni che ha appagato i suoi sogni, ha vissuto il grande boom della gastronomia e partecipato allo svecchiamento della cucina italiana introducendo sensazioni, odori, tecniche, prodotti poco diffusi.
Non esistiamo a dire che il Pagliaccio, con la Pergola di Heinz Beck e l‘Imago dell’Hassler è la migliore tavola di Roma: una esperienza appagante, completa, complessa, sorprendente, in una cornice di servizio perfetta curata da Matteo Zappile e la carta dei vini che ha il torto di avere ricarichi eccessivi anche se capace di appagare ogni gusto e tendenza.

 

Genovese è un cuoco entrato nella maturità piena. La padronanza delle tecniche è perfetta, l’uso delle spezie adesso più che a stupire è funzionale ad esaltare il sapore del protagonista del piatto e quello che più ci piace è il suo non essere mai scontato, la sua capacità di sorprendere in continuazione, il suo perfezionismo maniacale, le sue cineserie, che sicuramente impegnano molto chi si siede in questo locale che gode di una recente e indovinata ristrutturazione.

Lo si vede dall’aperitivo che introduce al fantasmagorico mondo del cuoco:  Cubo di maiale e chutney al pomodoro verde, biscotto di grano saraceno con cheese cake di anguilla e frutto della passione, tartelletta alla carota e lievito, crackers al pomodoro e pecorino da intingere in crema di melanzane, crema di ceci e trippa di baccalà, chips alla seppia e frutto della passione. Dall’aperitivo e dai pani.

Sempre particolarmente riuscita l’estrazione del sapore, Genovese non è un cuoco che ha paura di osare: spinge sin dove è possibile, le aggiunte di ingredienti e spezie sono esaltatori di gusto, non vengono usate per equilibrare

 

Colpisce, forse più di ogni cosa, il concetto “poco italiano” di pasta che alla fine non è mai protagonista assoluta, ma molto ben assemblata, sia nel caso del tagliolino, nell’amarcord Buozi ma soprattutto nel risone al verde in cui l’elemento vegetale ha una forza pazzesca e dirompente. Già perché di pasta si tratta, quella che da bambini mangiava insieme al burro e al parmigiano e che qui diventa comprimario, spalla.

Ci troviamo poi di fronte al piatto della serata, la sogliola con i piselli. Cotta insieme alla lisca come viene proposta da Rech ma decisamente migliorativa, sgrassata grazie al tono acido del latticello e capace di conservare il mare dentro. Un piatto tecnicamente perfetto, dal sapore deciso e ben coniugato ai legumi. Ci piace da matti che l’unico ristorante bistellato di Roma abbia adottato un pesce che nessuno propone più, banalizzato dall’industria, ricordo di bambini anche in questo caso perché era obbligatorio mangiarlo a giorni alternati con il merluzzo che mia madre ogni santa mattina andava a comprare al mercato del pesce. Bene apprendiamo che invece è il piatto che ha dato meno soddisfazione: un po’ perché c’è chi non apprezza la cottura con la lisca, e questi sono gli incompetenti di come si mangia il mare, un po’ perché c’è chi dice che mangiare una sogliola in un bistellato è declassante, è questi sono gli incompetenti della vita. E capiamo allora ancora una volta quanto sia difficile il lavoro di ristoratore e come sia quasi impossibile uscire dagli schemi in Italia. Insomma, la sogliola si deve mangiare sfilettata con un po’ di limone quando stai tirando le cuoia in ospedale! Insomma quel che vale per il pollo si adatta anche alla sogliola.
Difficile per un cuoco resistere a questi pregiudizi ancestrali. E’ più facile imporre un Katsuobushi che una sogliola nel paese del cibo. Alè!

Chiudiamo volentieri con la pasticceria, sempre di altissimo livello, non zuccherina, efficace fine pasto che non appesantisce.
Ma siccome non è possibile alzarsi da tavola leggeri, ci pensa Guido Barendson ad ordinare un paio di whisky assolutamente non torbati come si conviene ai veri intenditori.

CONCLUSIONI

Quando il cuoco incrocia la tecnica con la maturità siamo al meglio perchè si concentra sul piatto e non sulla voglia di stupire. L’esperienza al Pagliaccio è completa, sicuramente superiore ad alcuni tristellati, ampia, eclettica, illuminista e illuminata. Il menu di 10 portate costa 170 euro, c’è poi il light lunch a pranzo con quattro portate a 75. Anthony Genovese con il suo italiano simpatico e improbabile è cuoco vero, di testa e di pancia, di tecnica e di prodotto,  e siamo sicuri che la sua carriera gli può portare ulteriori e significative soddisfazioni. Intanto, se passate a Roma, come si usa dire, non potete perderlo.


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