Amici miei a Parigi-3. Delusione Inaki Aizpitarte, Le Chateubriand: troppi congressi fanno male

Pubblicato in: Città e paesi da mangiare e bere, Parigi

A ciascuno il suo. Ciomei, Fiordelli, Maffi e Pignataro hanno girato e mangiato un paio di giorni a Parigi. Quattro racconti per quattro pasti pubblicati su Luciano Pignataro WineBlog e Consumazione Obbligatoria
Ecco il terzo

di Giancarlo Maffi

Giocando alla ruota della fortuna abbiamo perso. Questa è una delle possibili chiavi di lettura della nostra esperienza da Inaki Aizpitarte lo chef osannato dai media e premiato come miglior chef di Francia dalla San Pellegrino, con la surreale classifica di qualche tempo fa. Altri ci hanno mangiato bene, a onor di cronaca. Passerini, chef di Rino, che troverete domani recensito qui, il giorno dopo ci ha confermato una bella cena tre mesi fa.  E sembrava sincero.

Certo affascina vedere una gioventù non banale e fighetta fare la coda per il secondo servizio. Età fra i venti della giovane bionda di cui vi mostriamo il lato b e i quaranta del’aitante giovanotto che soffierà sul collo del malcapitato ospite del piccolo tavolo vicino all’ingresso, costringendolo a levare le tende quanto prima, anche per evitare sicuri trasferimenti di bacilli influenzali .

Certo, la formula è vincente e il simpatico Inaki pare aver trovato l’uovo di colombo. Locale strapieno nei due servizi, menù a 50 euro, scarso uso di gas, di questi tempi scelta azzeccata mica poco, nessun avanzo in cucina (oddio, cucina è termine enorme).

Allora: al parigino medio, giustamente stanchissimo di coq au vin, gigot roti e pallide omelettes, non pare vero di entrare qui con un cifra relativamente modesta a Parigi, e sentirsi anch’esso parte del vorticoso mondo della “nuova cucina mondiale contemporanea”. Difatti le ragazze che li accompagnano sono vestite a festa, per la serata del mese. 120 euro in due, faticosamente messi da parte dallo strapelato fidanzato universitario di turno, prezzo per le chiavi della felicità se ci si attiene a un bicchiere di vino a testa e alla consueta caraffa d’acqua del sindaco. Cosi poco per mangiare nel miglior ristorante di Francia? Così pare.  Così dicono i soloni mediatici di mezzo mondo.

Noi, semplicemente, non siamo d’accordo. Non conta, sia chiaro, la frugalità degli arredi, che peraltro a me sono persino piaciuti, la tavola spoglia al punto che se ti metti il tovagliolino di carta sui pantaloni poi non sai più dove appoggiare le posate, non certo sul tavolo di legno pullulante di batteri. Forse in tasca potrebbe essere la soluzione migliore.  I bicchieri non sono nemmeno male, se paragonati all’obbrobrio del tristellato Ambroisie dell’anno scorso.  I ragazzotti sono meno spocchiosi della media parigina e perfino pazienti, dopo i trenta minuti necessari ai due competenti Pignataro/ Fiordelli per partorire lo straccio di una bottiglia di vino da quella carta piuttosto stramba. A un certo punto, brividi, si era persino pensato alla provocazione del sidro, pensate un po’.

Insomma di tutto quanto stava attorno ce ne siamo tutto sommato bellamente fregati. Sapevamo che avremmo “dovuto guardare nei piatti” e collegare, Gesù, “ il palato alla mente e al cuore” frase un po’ da cioccolatino Perugina  inviatami a metà pasto da un caro amico collega dell’ Aizpitarte.

Ci ha detto male, perché nei piatti non abbiamo trovato nulla, o comunque nulla di quello che cercavamo.

Quattro amuse bouche

mozzarella affumicata, choux rouge, inqualificabile.

bouquet crevettes flambée au whishies, inutile tentativo di modernizzare i piccoli gamberi serviti nei ristoranti di crudità di mare

bouillon di navet, funghi, reglisse e olive, fusion orientale più freddo che tiepido e quindi perfino inutile e,

FINALMENTE,

l’unica cosa, UNICA, che lascia trasparire un colpo d’ala, non dico di genio: un pezzetto di maquereau, il banalissimo sgombro, deliziosamente affogato in una crema di cavolo, caffè e limone confit, dove lo scontro fra sapidità, dolcezze, amaro e acido è così centrato da apparire un caso, se guardiamo al resto del pasto.

Comunque interessante. Un sol piccolo boccone, ma di classe. Bravò.

I piatti del menu: ENCORNET, BETTERAVES, ROSE, dove inizia un percorso minimalista.  Buona la materia prima, lo dico qui e vale per tutto il pasto, del tutto inutili le rape rosse per non dire dei petali di rose, buttati lì per abbellire un piatto ma senza significato gustativo.

Stessa sorte per il NASELLO, CIPOLLE, CAROTE, BEURRE NOISETTE.  Con accompagnamenti di questo tipo o la giochi sulle estreme e definitive concentrazioni di sapori, oppure il tutto resta nell’anonimato più piatto.

Interessante, ma in senso negativo, il passaggio sul piatto diciamo così, importante della serata.  Io e un altro commensale saltiamo l ‘interpretazione dell’AGNELLO DI LATTE, SCORZONERA, KUMQUATS (non spaventatevi , si tratta di banali mandarini cinesi) e chiediamo un’ altra cosa.. Ci viene proposto  un pollo. Pare interessante.

Sorvoliamo sul fatto che il soggetto si presenta all’ingresso portato da un camerierino proveniente dal vicino nuovo locale di Inaki, in una cassetta nemmeno protetta, e passa attraverso le due ali di folla in attesa del secondo servizio, con ogni probabilità assumendo ulteriore carica batterica dalle varie forme influenzali presenti, e vincenti, a Parigi in questi giorni.

Dicevo sarebbe anche interessante se, oltre alla solita cottura minimale, sulla pelle due minuti all’unilaterale e praticamente cruda dall’altra, l’insolita presentazione con anice, pinoli e becchime vario non facesse uscire dalla bocca del Fiordelli battutista il nome del piatto: IL POLLO E IL SUO BECCHIME. Dicevo sarebbe perché in effetti poi cadono i sentimenti osservando che la stessa cosa è pensata per l’agnello. Quindi manco il tentativo di pensare e proporre un minimo di variante. Cadono le braccia. Questo è un passaggio significativo.  Un’alternativa di piatto, e ti può succedere perchè  non tutti amano l’agnello, viene proposta con lo stesso accompagnamento. Superficialità estrema. Infine si tratta di pollo e insalata, un must di tutte le trattorie del Centro-Sud.

Naturalmente che ti vuoi trovare nel dessert? Ovviamente, perché di ovvietà a questo punto bisogna parlare, un bel campo di vegetali, fiori,  frutta, cioccolato e balle varie, tra l ‘altro tirato via senza nemmeno un po’ di estetica.

Almeno quello di Bottura, che a me non piace, ha un senso, filologico e gustativo, estetico e funzionale, cribbio! Ci mancava solo la “spugna” di qualcosa e poi stavamo a posto. Globalizzazione mediatica di cibo contemporaneo, dalla Lapponia al Giappone all’Italia.

Ragazzi, datevi una mossa: incontratevi un po’ meno nei congressi mondiali e state più in cucina a perfezionare le vostre migliori esecuzioni che è meglio. Perché poi ti trovi le stesse cose a 10.000 chilometri di distanza e ti viene il sospetto che ti si prenda per … i fondelli.

Allora, il senso mi pare questo: Inaki sfrutta una esigenza tutta parigina: il desiderio di levarsi dai paludamenti di una cucina ingessata, e va bene. Il prezzo, componente essenziale , è centrato. Ripeto, 60 euro per essere sballottati nel mini pimer della moda contemporanea di cibo è un affare nella testa del parigino sans argent dans la poche. Bella gioventù e qualche gnocchetta che però dovrebbe frequentare corsi di postura, ma non ha i soldi e facciamo finta di non vedere. In realtà mi pare l’equivalente di certi posticini milanesi dove, in fondo, di quel che c’è nel piatto importa poco.

Qui però va meglio: si intuisce che Inaki, se volesse, potrebbe.

E allora non ci resta che sperare che faccia velocemente  un mucchio di denaro per poter poi proporsi con un ristorante a modo, a 120 euro, dove deliziarci con la sua arte.

Ammesso che la possieda e abbia voglia di mostrarcela, naturalmente.

Per chiudere vi dico che lo chef si è palesato all’inizio, risolvendoci gentilmente il problema dell’aperitivo al banco dell’altro suo locale vicino, che stava diventando un duello all’arma bianca fra Maffi 2 e una bizzosa barista che avrei volentieri preso almeno a male parole. Poi non è pervenuto, né al tavolo ma questo ci sta, né purtroppo nella “cucina” del suo bistrot. Con ogni probabilità stava nella cucina dell’altro, LE DAUPHIN.

Valutazione?

Sono indeciso fra 13,5/20 e senza voto, che forse sarebbe la cosa migliore….

129 Avenue Parmentier, 75011 Paris, France
Tel.01 4357 4595

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