‘A marenna…La Merenda

Pubblicato in: i primi, i secondi

E’ un altro di quei riti rurali scomparsi dalla vita quotidiana delle popolazioni della Campania, e credo anche del resto dell’Italia. Fino agli inizi degli anni ’70 , ” a ‘ marenna”, nelle campagne, oltre a dividere la giornata lavorativa in due parti perfettamente uguali, e allora non si parlava delle fatidiche otto ore, ma in estate si arrivava fino a quattordici/quindici, di ore lavorate, costituiva soprattutto un momento di socialità molto rilevante. Gli uomini attendevano le donne, che all’ora stabilita comparivano, bambini per mano, con le antiche “ruagne” ( una sorta di grande cesta fatta a mano intrecciando del legno ottenuto dalla “sfogliatura” delle pertiche di castagno) trasportate in testa con l’ausilio del “truocchio” (canovaccio arrotolato avente la funzione di ammortizzatore). In quelle ceste c’era il “necessaire”per un frugale pasto da svolgersi seduti sull’erba l’uno accanto all’altro, in circolo, dopo aver accuratamente scelto ” ‘o puost’ a remoto “(dove non tira vento). Il contenuto della ruagna era variabile a seconda della stagione e della disponibilità del momento, quindi, come si può facilmente immaginare, tutto ciò che si doveva comprare era automaticamente escluso, ma quello che non doveva mai mancare, naturalmente, erano il pane ed il vino. Il pane perchè “rigneva ‘a panza” e o’ vino perchè “asciuttava ‘a surata”. Spesso c’era pane e lardo, in primavera “cas’ e favulat’ “(formaggio e fave), molto gettonato era pure “salisicchi, patane, pipilli e ove”(salsicce, peperoncini, patate e uova), ma il must era “patan’ ‘a zupp’ “, che, quando si voleva essere magnanimi con gli altri contadini che venivano ad aiutare, venivano arricchite con i ritagli di stocco o di baccalà.

Qualche volta si “eccedeva” pure nella magnanimità, rischiando di incappare in situazioni incresciose come quella capitata, non si sa se sia leggenda o sia veramente accaduto, a mia nonna, che per fare cosa gradita ai venti e passa lavoranti impegnati al lavoro nei suoi campi, aveva preparato, sul posto, un “cauraro”(paiolo) di minestra maritata, nel quale era finita, inavvertitamente, una biscia, e visto che si era resa conto solo all’ultimo momento dell’accaduto, non aveva potuto ovviare rifacendo la preparazione. Ai commensali quella minestra era tanto piaciuta che, per la disperazione della nonna rispetto alla difficoltà di reperire l’ingrediente principale, posero come condizione per ritornare al lavoro il giorno seguente la pedissequa ripetizione del piatto. Naturalmente da Luglio in poi, abbondavano le insalatone di pomodori, patate lesse, peperoncini verdi, melenzanine, cetrioli, cipolle e chi più ne ha più ne metta…Non mancavano mai le uova sode per noi bambini che “dovevamo crescere” e perciò ci “toccava” qualcosa di più energetico.

Da Ottobre a Marzo era immancabile ” ‘o mallon’ e a pizz’ e raurign’ “, un’amalgama di rape e patate lesse, ripassate nella “frizzora” (padella di rame o ferro) e accompagnate da una sorta di pizza di mais cotta davanti alla brace del camino in un utensile di coccio chiamato “chinco”.

Nel periodo invernale, caratterizzato dalla “festa” ai maiali, capitava anche che si facessero le braciole di cotica con le frittatine all’interno. Durante la mezz’ora della durata di tutto il frugale pasto, tanto durava l’intermezzo, era un continuo sfottò sull’abilità e sulla forza dei lavoratori, accusati di prodigarsi più nel mangiare e nel bere che nel lavoro, apostrofati con il vecchio detto ” pizzolo buon’ e scelle rotte” (bocca buona e braccia rotte) oppure non sia mai qualcuno fosse stato sorpreso a sbadigliare, veniva immediatamente messo alla gogna con la frase : “chi ial ‘ poc’ val'” (chi sbadiglia vale poco). Il primo ad alzarsi per dare il la a tutti, vedi caso, era sempre il titolare del fondo dove si stava lavorando, che tagliava corto annunciando che si appartava per… “cambiare l’acqua ai lupini”.

Fino alla fine degli anni ’50, si usava tenere anche il pasto principale alla fine della giornata lavorativa, e spesso si andava a lavorare letteralmente per “la pagnotta”, nel senso che oltre al vitto, e per chi veniva da molto lontano il giaciglio nella stalla, non c’era altra forma di retribuzione. Tempi durissimi, che dovrebbero farci apprezzare di più ciò che abbiamo e che buttiamo senza ritegno, pensando che tale comportamento sia una conquista e non uno spreco inqualificabile, oltre che un oltraggio all’indigenza che pure esiste e si aggrava sempre più. Ma non è che stavamo meglio quando stavamo peggio?

Lello Tornatore – Tenuta Montelaura


Dai un'occhiata anche a:

Exit mobile version