Ma cosa ho fatto di male per meritare tutto questo?


EstaThè

di Fabrizio Scarpato

Non so voi, ma io non sono così. E nemmeno quelli che conosco sono così.

Nessuno che al ristorante inarchi la schiena brandendo un menu, alzi il mento agitando la mano destra con indice e pollice uniti, moduli accademicamente la voce dando aria ai denti per emettere una tale massa di stronzate. Nessuno è così.

Ecco, si dirà, il gurmé cacchina, il fighetto curioso che con stizza stigmatizza e s’incazza, con la coda di paglia, perché lo prendono per il culo: non mi interessa essere qualcheccosa, non mostro patentini e certificati, ma continuo a chiedermi cosa ho fatto, cosa abbiamo fatto di male per meritarci tutto questo. Noi, tutti.

Cosa abbiamo fatto di male perché l’interesse, il divertimento, la gola, la legittima curiosità per il mondo del cibo e dell’enogastroquellochevolete debba essere sbertucciata da un tale che su una terrazza che sembra la tolda di una nave impiega mezz’ora, tremila gesti e quarantaquattro boccucce per ordinare un’insalata, per poi perdersi drammaticamente, povero grullo, su cosa berci sopra: “e da bere?”. A me non me ne frega nulla che il bitorzolone beva EstaThè, non è lì il problema: il tè va benissimo, forse si potrebbe scegliere qualcosa di meno dolce, forse si potrebbe accettare un tè e basta, fatto bene, probabilmente con un’insalata basterebbe un bel bicchiere d’acqua, ma che ve lo dico a fare, così facendo, secondo l’iconografia supposta, mi darei la zappa sui piedi, eccependo, catechizzando, sboronando, gurmettando, gu gu gu, fru fru fru, cucù cucù, ma con le labbra a culo di gallina, come il nostro amicone, è difficile intavolare una discussione.

Insomma c’è dell’altro. Perché in trenta secondi il bamboccione mette insieme una serie tremenda di luoghi comuni che è da ieri sera che mi sto grattando per una improvvisa eruzione cutanea: mi parte dal naturale, sottintendendo genuino, passa per lo stucchevole diminutivo per i poveri pomodori che son sempre pomodorini, sottolinea l’olio extravergine manco fossimo tornati ai tempi di Ave Ninchi, e arriva al colpo basso delle zucchine, non tanto perchè già portano il diminutivo nel nome, ma perché per il cicisbeo hanno da esser dell’orto, “mi raccomando”. Orto. Quale orto, ricciolone, dove lo vedi l’orto, dove credi che sia l’orto?

E qui, genuflesso, mi rivolgo idealmente all’immenso Carlin Petrini: la storia del chilometro zero, degli orti sul balcone, della natura, della cucina della nonna, presenta questi rischi: i cortocircuitati fanno di tutta un’erba un fascio, ci marciano, scherzano, sbandierano, banalizzano, prosciugando e svuotando di significato le idee, anche quelle impraticabili come queste, ma che hanno in sè almeno la forza della suggestione, la spinta evocativa. Invece sempre più facilmente le parole perdono peso, si frantumano macinate nel tritatutto dei comportamenti omologati, nel vuoto delle frasi fatte: sembra che prendano per il culo i gastrofighetti, in realtà ammazzano chi vive di agricoltura, si smazza e sa che con l’orticello non si risolve nulla, salvo divertire i bambini e procurarsi qualche foglia di basilico fresco. Le parole diventano moda.

Appunto. Lo sfogo cutaneo s’è fatto insopportabile dopo essermi imbattuto in un titolo “Mambo, pasta e verdure dell’orto, il buon gusto di Dolce & Gabbana” che preludeva alla atroce, nuova (sic?) constatazione che “italianità vuol dire buona cucina, dove non mancano mai pomodori e basilico. E così su giacche, costumi, gonne ampie con top reggiseno, prendisole, tailleur e abiti gioiello è un fiorire di stampe con verdure dell’orto”. Muto. Esterrefatto.

Questi son quelli che in nome della tradizione fotografavano dei bellimbusti in canotta e mutande mentre sbragati mangiavano spaghetti col cucchiaio e polpi con le mani in una tavola che era uno schifo, loro sì fighetti e maleducati, e oggi mi disegnano melanzane politicamente corrette sulla biancheria intima femminile? Carlin Petrini, ci rendiamo conto che ci prendono per i fondelli? Che una melanzana sul baby doll rinsecchisce interi campi di melanzane vere? Non è una bella sensazione vedere che il senso della tua promessa prende strade inaspettate, mezzo anzichè fine.

Melanzana

Il bambinone resta inebetito sul dilemma del beveraggio, anzi tutto il mondo si ferma in controluce: reset. Come dire, chi la fa l’aspetti, ma c’è sempre una possibilità, ragazzo. A sollevarlo dal coma stuporoso arriva infatti una biondina sciacquata e squaqquerata con bicchierozzo e cannuccia decisamente fuori contesto. E familiarizzano, redenti, nel sole luminoso della genuinità dietro casa.

Altro che orto, frega un tubo dell’extravergine, qui si cucca: ci mancava solo questa, lo stupidone saccente alla fine riesce pure a rimorchiare.

Chino il capo, avvilito.

7 Commenti

  1. Non è forse questo lo scopo di questa merdaccia di pubblicità… facce riflette (no?) su come semo diventati…

    Pensa te, se il presidente der consiglio se po’ permette de prenderci tutti pe’ culo (a’nteso?), figurati se un coglione de markettaro nun se po’ permette de fa’ sta fregnaccia der tè con l’insalata… :-O

  2. E qui mi sa che quoto il meyo para…. Ormai in Italia si va avanti a stronzate, bravo Fabrizio pubblicità orripilante, hai descritto molto bene il disgusto, ma da persone intelligenti, La pubblicità va letta col doppio rovescio della medaglia, chi sceglie tale spot, può avere testa x fare un buon prodotto ????

  3. “la patatina tira” tanto per citare un altro capolavoro…in fondo ce lo meritiamo…ci meritiamo la melanzana sulla mutanda e una parodia da quattro soldi…tu non sarai cosí caro Fabrizio, e ammetto che ti leggo sempre con avidità, mi stimoli e diverti, ma tanti enogastroimbecilli farneticano a vanvera pensando che scrivendo di enogastroblablabla stanno salvando il mondo…ah quante zucchine dell’orto…

  4. ma perche’ te la prendi tanto per una stupida pubblicita’??? questo è lo specchio dei tempi, sta a noi, gente con cuore e soprattutto cervello osteggiare questi messaggi pubblicitari. in un contesto mondiale,in cui nemmeno l’acqua è pura, figurati se ci beviamo l’estathè, specie quando al bar te lo fanno pagare 3,50 euro. ma siamo impazziti???
    non ce la faccio piu’ a ribellermi alla stupidita’, alla superficialita’, all’arroganza, alla violenza.

  5. Per rispondere un po’ a tutti (a parte il Maffi che usa troppi esclamativi) mi viene da parafrasare una frase di Gaber: quel che temo non è tanto la stupidità in sé (o l’arroganza, o la superficialitò, o quel che volete) , ma la stupidità che è in me. Goccia a goccia certi comportamenti ti entrano dentro, finisci per giustificarli, per accettarli. Sei così anestetizzato che anche l’incazzatura è edulcorata, addolcita. Ecco, anche nelle piccole cose, un sussulto di attenzione contro la pervasività della stupidità è tonificante e rinfrancante. Nel nostro infinitamente piccolo, beninteso.

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