PizzaFormaMentis – La farina o le farine?


Invito pizza Forma mentis

Invito pizza Forma mentis

di Luciana Squadrilli

La seconda sessione della giornata di PizzaFormaMentis è dedicata all’ingrediente principale dell’impasto: la farina. O meglio, bisognerebbe dire, le farine visto che sono diverse le tipologie che si possono utilizzare per la pizza: da quella 00 – con eventuale aggiunta di 0 – prevista dal disciplinare della Verace Pizza Napoletana a quelle meno raffinate e più o meno “integrali”. Con ognuna di esse – o al loro mix personalizzato, ma più spesso anche con il marchio che le produce – s’identifica solitamente il pizzaiolo, come nota Luciano Pignataro in apertura.
Come mai? Cosa rende questa scelta così cruciale per ottenere la “propria” pizza?

A rispondere a questi interrogativi sul palco ci sono anche Antonio Puzzi di SlowFood Campania – curatore del bel libro La Pizza-Una Grande Tradizione Italiana pubblicato di recente – e Paolo Marchi, che da anni dedica alla pizza una giornata del congresso Identità Golose e anche una newsletter dedicata.
Ma, soprattutto, ci sono i rappresentanti di quattro dei maggiori mulini italiani da cui escono ogni giorno sacchi e sacchi utilizzati in Italia e nel mondo per impastare tantissime pizze.
Quattro storie, quattro filosofie e quattro prodotti – o meglio, famiglie di prodotti – diversi, con molti punti in comune. Ben venga, dunque, un incontro che metta da parte competizione e rivalità (nonché critiche e polemiche che vengono spesso da terzi, come nota Paolo Marchi sollecitando invece il confronto) per fare chiarezza e puntare all’obiettivo comune della qualità, tanto del prodotto che del risultato finale: la pizza.

Tutti – a cominciare da Puzzi – concordano sull’importanza della filiera e della trasparenza, cercando dove possibile di adoperare e valorizzare i grani italiani come quelli della filiera certificata Bologna-Modena-Ferrara di cui racconta Daniele Belletti, sales manager dei Molini Pivetti. Anche Piero Gabrieli del Molino Quaglia sottolinea l’importanza – economica, “culturale” e anche di impatto ambientale – dell’uso di grani italiani, cercando di stimolare e motivare gli agricoltori nostrani; con lui concorda Giorgio Agugiaro – di Agugiaro&Figna – ricordando però che visti i consumi odierni non sarebbe possibile fare a meno di importare grani, naturalmente selezionati e di qualità, dall’estero a meno di non rinunciare a un bel po’ di pizza e pane. E fa un azzeccato parallelo con il mondo del vino: “Ai consumatori consiglierei di non chiedere ai pizzaioli che farina usano ma come la usano. Perché è vero che la materia prima è importante ma bisogna saperla usare. Da uve mediocri un bravo enologo riesce a tirare fuori un vino discreto, mentre uno scarso farebbe un vino cattivo anche da uve perfette. Se poi date uve eccellenti a un bravissimo enologo, allora è fatta. Questo per dire che la pizza è buona quando è ben lievitata e digeribile, un fattore che diventa sempre più importante mano a mano che la popolazione invecchia. Noi da tempo stiamo puntando da questo: è importante insegnare a fare una pizza ben lievitata in modo che i consumatori siano contenti e i consumi aumentino”.
È d’accordo anche Antimo Caputo, rappresentante del mulino che più di tutti si identifica con la storia della pizza napoletana. Caputo ricorda quanto siano cambiate le cose negli ultimi tempi: “Noi abbiamo sempre fatto “farina” e basta, una volta mica c’era quella per pizza, quella per pasticceria etc. Così come non esiste una linea di pomodori pelati per la pizza, una per la pasta, una solo per il ragù. Una buona farina ha determinate caratteristiche e sta al pizzaiolo decidere quale e come usare per ottenere il risultato che si prefigge. La pizza perfetta non esiste, la sperimentazione è continua da entrambe le parti; oggi c’è la tendenza a produrre ad esempio farine più adatte alle lunghe lievitazioni o alle alte idratazioni, per andare incontro alle esigenze dei pizzaioli”.
E sottolinea anche l’importanza economica e culturale dell’esportare – in questo caso – non grano ma farina, frutto della grande tradizione e maestria italiana nella trasformazione. “Tutti i pizzaioli che fanno pizza napoletana all’estero e che usano la nostra farina sono anche un modo importante per esportare in qualche modo la nostra territorialità, magari facendo pure venir voglia di venire a Napoli”.
Piero Gabrieli, dal canto suo, riconosce il valore della pizza napoletana ricordando che da essa partono poi le tante varianti e gli adattamenti “territoriali” oggi esistenti. Ma, tornando al titolo della giornata – napoletana, classica, gourmet? – Paolo Marchi chiosa con la richiesta di archiviare quest’ultimo termine, ormai abusato. “Vanno bene tutti i gusti e tutti i tipi, l’importante è fare “scuola” e permettere alle persone di distinguere una pizza buona da una che non lo è”.