Capasso Wine: sulle cime del Taburno un progetto enologico sannita dal sapore francese
di Pasquale Carlo
Una storia enologica con lo sguardo rivolto alla Francia, ma con i piedi ben saldi al suolo del Taburno. Siamo a Tocco Caudio, un paese che vive di un forte passato. Qui, i Longobardi raggiunsero le quote più in alto dell’attuale Parco Regionale del Taburno per dare lustro ad una cittadina posta su un’altura difficilmente conquistabile. Allora si chiamava solo Tocco, dando il nome all’intera Valle poi diventata vitulanese, patria di una famiglia che vantò moltissimi esponenti nei Sedili di Nilo e Capuana, con alcuni esponenti che furono grandi collaboratori di Carlo III d’Angiò nella campagna di conquista dell’Epiro. Di quel passato restano case, chiese e strade che la natura sta letteralmente divorando, un borgo fantasma che dal terremoto del 1980 è diventato una delle cartoline più emblematiche dei borghi abbandonati.

Il vecchio borgo di Tocco
Occorre superare di molto quest’immagine densa di passato per raggiungere l’azienda del giovane Cosimo Capasso, adagiata su un declivio da cui, a differenza del borgo abbandonato, la vista spazia ampia su un territorio suggestivo. Solo 33 anni, ma con una bella storia già alle spalle, quella che diversi anni fa ha visto nascere un’azienda tartuficola di successo, in cui Cosimo ha messo a frutto tutta la sua passione per questa particolare produzione che lo ha portato oggi alla guida dell’Associazione Tartufai della Campania.

Cosimo Capasso
Una passione che divide con quella per il vino, che nel 2020 – nel pieno dell’emergenza Covid – lo ha portato a dare vita ad un nuovo progetto. Un progetto di viticoltura di alta quota, con la stessa dedizione e attenzione riservata al tartufo, puntando a coniugare eleganza internazionale e identità locale.
Eleganza internazionale e identità locale perché tra i vigneti dell’azienda troviamo quello che uno difficilmente si aspetta. Le vigne si estendono oggi su 10 ettari, impiantati in maniera scalare, cioè realizzati a più riprese nel tempo per affinare progressivamente la gestione dei lotti e adattare le scelte varietali alle condizioni specifiche di ogni appezzamento. A conclusione di questo percorso durato quattro anni oggi ci troviamo di fronte a 8 ettari coltivati a Chardonnay e 2 ettari coltivati a Pinot Nero.

I vigneti di alta quota
Non si tratta di un cruccio, nemmeno di un tentativo di creare una moda. La decisione è nata studiata e ragionata. Le vigne crescono tra i 650 e i 1.000 metri di altitudine, su versanti scoscesi e ben esposti al sole, soggetti a forti escursioni termiche. Il progetto vitivinicolo si concentra sui due vitigni, selezionati solo dopo un attento studio pedologico approfondito, in cui Cosimo è stato sorretto e guidato da Pierpaolo Sirch, uno che la Campania la conosce a menadito e che quando si è ritrovato per la prima volta in quest’angolo del Taburno ne è rimasto letteralmente folgorato.

Pierpaolo Sirch
Un territorio dove le uve maturano lentamente, assorbendo la mineralità dei suoli e sviluppando carattere, freschezza e longevità. Coltivare in altura comporta sfide significative, ma riflette pienamente la filosofia dell’azienda: equilibrio, fatica e rispetto per un territorio che richiede attenzione costante.
Le piante messe a dimora sono state selezionate dopo aver studiato suoli e clima, sfruttando un ponte con la Francia dove sono stati selezionati portainnesti e cloni più adattabili allo scenario che ospita l’ambizioso progetto. Dopo questa scelta accurata, ogni pianta è stata impostata secondo il metodo Simonit & Sirch, che privilegia la ramificazione naturale e il rispetto del legno. La potatura, lenta e rispettosa del ciclo biologico della vite, mira a preservare il sistema linfatico, garantendo longevità e integrità vegetativa. Questo approccio consente di mantenere vigore equilibrato e di ottenere uve di qualità costante nel tempo.

Il modellamento della pianta
Vengono così plasmati vini concepiti per essere immessi sul mercato solo dopo oltre due anni dalla vendemmia. Avendo avuto l’occasione di degustare in anteprima l’etichetta Chardonnay, che sarà sul mercato a partire dalle prossime settimane, posso confermare che se l’obiettivo era quello di garantire maturità aromatica e stabilità complessiva, lo stesso è stato ampiamente perseguito. Raggiunto grazie ad un lavoro maniacale che si protrae oltre la vigna, che regna anche in cantina, dove l’azienda integra l’uso di legno e anfora come strumenti selettivi per valorizzare struttura, complessità e identità varietale: questa scelta tecnica permette di ottenere vini profondi, longevi e capaci di esprimere chiaramente le caratteristiche del territorio d’alta quota.

Grappolo di Chardonnay

Grappolo di Pinot Nero
Il progetto produttivo, in attesa dell’ingresso sul mercato del Pinot Nero (che non giungerà prima dell’arrivo della prossima stagione calda) prevede di raggiungere circa 50.000 bottiglie, includendo nuove referenze: un Metodo Classico da uve Chardonnay (previsto per fine 2027) e un Metodo Classico rosé da uve Pinot Nero (previsto per il 2029 inoltrato).
Grande attenzione anche alla comunicazione e al design dei vini. L’azienda ha collaborato con Mario Di Paolo per creare bottiglie che raccontano l’identità della cantina attraverso forme, materiali e simboli. L’etichetta del Pinot Nero si distingue per l’embossing che richiama lo stemma di famiglia, intarsi laterali e l’assenza di capsule vistose, sostituite da una finestra dorata che lascia intravedere il tappo in sughero. Quella dello Chardonnay valorizza il bronzetto di Ercole, simbolo del territorio, con etichette materiche e rilievi che accompagnano l’esperienza di degustazione con coerenza visiva e tattile. Ogni dettaglio unisce eleganza, narrazione e senso di appartenenza, confermando l’identità territoriale dei vini e la filosofia dell’azienda: prodotti profondamente legati al Sannio, che raccontano storia, territorio e cultura.

Un’etichetta ricercata e studiata
L’intero progetto è guidato da una filosofia di sostenibilità e basso impatto ambientale. Non poteva essere diversamente per la cantina che presto nascerà, progettata da Hikaru Mori e che costituisce un elemento chiave del progetto vitivinicolo di Cosimo Capasso. Architetta e designer giapponese, la Mori si è trasferita a Milano dove ha sviluppato la sua carriera professionale, co‑fondando con l’architetto italiani Maurizio Zito lo studio ‘ZitoMori’, la cui attività si concentra su architettura, design, paesaggio e territorio, con un approccio che integra spazio interno ed esterno. Tra le opere più note dello studio si trovano cantine vinicole (come Feudi di San Gregorio e Masseto), spazi pubblici come il Controne River Park, e il Padiglione Irpinia all’Expo Milano 2015.

Il sopralluogo per la nuova cantina con Hikaru Mori
La Cantina Capasso è stata pensata non solo come spazio funzionale per vinificazione e affinamento, ma come luogo integrato nel paesaggio e coerente con i valori di sostenibilità e rispetto ambientale che guidano l’azienda. Mori, architetto con esperienza e sensibilità specifica per l’architettura legata al vino e al paesaggio, ha dato vita ad un progetto in cui la relazione tra edificio e sito naturale è centrale. Una cantina che sarà quasi interamente sottoterra, riducendo al minimo l’impatto visivo sul territorio collinare e tutelando l’ecosistema circostante. Questa scelta permette di sfruttare anche le condizioni ambientali naturali per la climatizzazione e la stabilità delle condizioni di stoccaggio, con benefici sia tecnici sia estetici.
Nel frattempo, è in via di ultimazione uno spazio di accoglienza e degustazione, pensato per operatori del settore e appassionati, in cui divulgare attraverso i calici il lavoro in vigneto, l’approccio sostenibile e le scelte progettuali dei vini.
Un progetto ambizioso, dunque, con lo sguardo rivolto alla Francia ma con i piedi ben saldi al suolo del Taburno.