Cibo e comunicazione, un anno dopo Report


Bernardo Iovene e Teresa Iorio (Foto Scatti di Gusto)

Bernardo Iovene e Teresa Iorio (Foto Scatti di Gusto)

Avevo pensato di scrivere qualcosa a un anno dalla trasmissione di Report su Cibo e Comunicazione in cui vennero fuori con chiarezza ampie zone grigie.  Alla fine in realtà lo ha fatto Marco Contursi con questo pezzo.
Negli ultimi dodici mesi, se possibile, la situazione si è ancora più guastata con i social network, nel web c’è una confusione terribile e molti si fanno pagare semplicemente per mettere foto su Facebook. Purtroppo gli intrecci riguardano anche persone che riescono ad acquisire visibilità in associazioni o in manifestazioni nazionali grazie alla complicità o alla leggerezza di chi ha la responsabilità. E’ normale fare l’addetto stampa di alcune realtà ristorative e poi far parte di un’associazione che le giudica? E’ normale fare la comunicazione di un locale e poi scriverne per siti di manifestazioni che hanno una ribalta nazionale? Tutta questa confusione ha creato ormai l’idea che per essere nominato da qualche parte bisogna pagare. E se non si è nominati è perché non lo si è fatto.

Un anno fa ci fu una vera e propria guerra scatenata contro questo blog (il piano, dichiarato esplicitamente in alcune riunioni, era quello di farlo chiudere per far spazio ai blog a pagamento) da persone che fanno comunicazione e che non riuscivano a giustificare i loro meschini risultati se non accusando noi di prendere i soldi, mentre erano loro alle dipendenze di pizzerie, ristoranti e operatori del settore. Si affiancarono a questa canea di botoli e manutengoli anche rivenditori di prodotti di lusso infastitidi dalla nostra posizione che punta a difendere le produzioni di territorio e due o tre persone che avevamo allontanato perché avevano approfittato di questa ribalta per fare marchette. E, ancora, come sempre succede, alcuni cuochi scarsi, come hanno poi dimostrato i loro fallimenti e le loro chiusure in questi 365 giorni.
Molti speravano che Report chissà cosa dovesse scoprire, in realtà, come i pifferi della montagna che andarono per suonare e furono suonati, è bastato un po’ di lavoro sul campo per capire le cose come stavano.

Questo blog nel web è uno dei pochi baluardi di autonomia e serietà. Non è certo l’unico, ci sono quelli delle grandi testate giornalistiche ad esempio.  A chi da fastidio? In primo luogo a molti che prendono soldi da cuochi e pizzaioli promettendo loro mirabilie e attribuendo poi a noi la colpa dei loro insuccessi. E poi proprio a coloro che pensano che si debba pagare sempre e comunque.
Contursi parla di ingenuità, e in qualche caso c’è qualche coglione che paga persino a nero facendo mettere le mani direttamente nella propria cassa, ma la verità è che per ogni corrotto c’è un corruttore, per ogni concussore c’è un concusso che mette in conto di battere i suoi colleghi pagando.

Questa è la realtà, oggi in Italia, tra i primi paesi al mondo per corruzione. In ogni ramo, compreso dunque il cibo (l.pigna).

di Marco Contursi

Premessa: io non critico tutta la comunicazione, ma solo quella fatta male e quindi, da comunicatore, uso i mezzi di comunicazione per attirare l’attenzione sul problema.

Oggi tutti comunicano. Soprattutto di cibo. Fare il food blogger fa figo, qualcuno ci guadagna pure, almeno una pizza gratis ci esce.

Ma cosa comunicano? E soprattutto come?

Vanno fatti dei distinguo, infatti abbiamo:

  • Il food blogger, che spesso senza preparazione alcuna, recensisce, o meglio, narra in modo entusiastico di pizze e ristoranti. Non fa critiche ma solo racconti di quanto ha mangiato bene.
  • Il frustato, quello che quando va a mangiare sembra gli abbiano lacerato la schiena col cilicio. Solitamente è anche frustrato. Esce per scrivere male di qualcuno, magari perché va a visitare i locali solo di sabato sera e si lamenta su Trip perché ha aspettato mezz’ora una pizza.
  • Il giornalista che racconta di un vino o un ristorante, spesso competente, e che talvolta arricchisce il pezzo anche di critiche moderate.
  • Il comunicatore, quello che, giustamente retribuito, porta una attività a farsi conoscere dal numero maggiore di persone, senza tuttavia, spesso, preoccuparsi di cosa comunica ma solo del numero di persone raggiunte.

Quando queste 4 figure vengono confuse, succede il casino. Quando 1 di queste 4 figure va oltre le prerogative del suo status succede il casino.

Ad esempio quando il food blogger che dà pareri squisitamente personali e senza formazione specifica, o il frustato che esce per colpire qualcuno, viene preso per esperto, secondo il brocardo “Digito ergo sum”.

O quando il comunicatore, comunica una cosa sbagliata ma viene considerato vangelo, perché la trasmette in modo accattivante.

O quando il giornalista, prende soldi o altra utilità per parlare di qualcosa che semmai non merita, perdendo la sua proverbiale imparzialità (ovviamente, non essendo addetto stampa).

L’ultima è sicuramente la più squallida, ma forse la meno frequente, mentre le altre due purtroppo sono all’ordine del giorno.

Esempio dei primi due casi sono i foodblogger di pizza che ogni week end ci inondano con foto di pizze e commenti positivi sulla loro cena. L’ultimo week end ne ho contati oltre 15 e non ho tutti quelli che scrivono di pizze, amici su facebook. Basta poi vedere trip per trovare quelli che godono nel fare a pezzi un locale, perché di sabato sera o a Pasquetta non è stato tutto perfetto. Ora, è vero che i soldi hanno sempre lo stesso valore, ma in certe circostanze il buon senso induce a essere più clementi su alcuni (alcuni, non tutti) errori, oppure a restare a casa, come faccio io.

Altro esempio, un comunicatore va in un locale e fa una foto ad una pancetta, chiaramente difettata, ma creato lo sfondo giusto, un po’ di photoshop ed ecco che agli occhi del profano quel prodotto diventa una eccellenza. A mia domanda sul perché avesse fotografato quella pancetta difettata, mi rispose che era quella che aveva trovato e che il suo compito era solo quello di fare pubblicità al locale.

Ed è la stessa risposta che mi diede un editore che aveva pubblicato un romanzo, zeppo di errori grammaticali e di sintassi, scritto da un 85 enne, mio conoscente, con la 3 elementare e con velleità di scrittore in tarda età. “Io stampo quello che mi mandano” mi disse, senza rendersi conto che la brutta figura oltre all’autore la faceva anche lui che aveva messo il nome della casa editrice sulla copertina.

Ma la colpa di chi è? Del comunicatore che non conoscendo a fondo la materia che tratta, comunica anche una cosa sbagliata, perché cosi gliela prospetta il cliente, o del cliente, che prima di chiamare un comunicatore, non si rivolge ad un esperto per migliorarsi? O dell’utente finale che, ignorante, crede ciecamente a una bella foto o a uno slogan accattivante?

Di tutti e tre, i primi due perchè si preoccupano più di fare soldi che del messaggio che comunicano, mentre gli ultimi non investono in cultura del cibo per cercare di saperne di più. Per capirci, se comunichi una foto di una pancetta difettata e la gente va a mangiarla è perché quella gente di pancetta non capisce niente, ma viene affascinata da una bella foto. Così però non si fa cultura del cibo ma solo business, alimentando l’ignoranza delle persone. Ma forse proprio questo fa comodo, far restare le persone ignoranti, per poter propinare loro qualsiasi cosa grazie a una bella foto e uno slogan avvincente, cosa che fa la pubblicità dei grandi marchi da 50 anni. Esempio, “la pregiata qualità pinne gialle” è in realtà il tonno più diffuso al mondo, pregiate sono altri, ad esempio il tonno rosso, ma la gente ci crede.

Vittoria della forma sulla sostanza. Tutto qui.

E una tirata di orecchie va anche a quei ristoratori, che pur di avere 5 minuti di pseudonotorietà invitano chiunque scriva, senza riflettere sul fatto se, quelle due righe, in quel determinato blog, possano realmente tornar loro utili. Esempio, se io ho un locale di cucina gourmet da 50 e passa euro a pasto, e invito uno che scrive di pizze e ha tra i suoi lettori un pubblico di giovanissimi con la 10 euro in tasca, che utilità ho che costui scrive di me?

Io credo che, chi si occupa di pubblicità,  e questo vale in tutte le categorie merceologiche trattate, dovrebbe avere all’interno del proprio staff anche un esperto della materia che deve pubblicizzare, per evitare di mandare messaggi sbagliati, a meno che, scientemente, non voglia farlo. Per la serie, il tuo prodotto fa schifo ma io lo pubblicizzo comunque e te lo faccio vendere. Mentre sarebbe molto meglio, aiutare quel produttore a migliorarsi, prima di pubblicizzarlo. So bene che pubblicitario e consulente sono figure distinte, ma poiché nel settore food, soprattutto in campania, spesso vengono nell’immaginario collettivo unificate, sarebbe auspicabile che chi fa questo genere di comunicazione, viaggiasse insieme a qualcuno che realmente ne capisce, per non  lanciare messaggi sbagliati.

Se l’agenzia pubblicitaria della Nike non fa mai un video di una scarpa con la suola scollata, perché chi fa la pubblicità a un locale deve fare foto di una pancetta aperta dentro e ossidata?

Perché al cibo ci si approccia con superficialità.

Perché tutti credono di capirne, solo perché mangiano tutti i giorni, perché è oggi il settore più banalizzato, contando sulla ignoranza delle masse, perché conta più come trasmetti un messaggio che il contenuto del messaggio stesso.

Infine, sulla querelle sempre aperta dei giornalisti che prendono soldi o altra utilità per scrivere di cibo e sulle recensioni sempre benevoli, chiariamo subito che dei primi casi mancano prove certe e spesso sono solo voci di corridoio di qualche locale scontento. Non bastano cento dicerie per fare una verità, pur non potendo in via astratta rinnegare in toto la cosa. C’è qualcuno che lo fa? Benissimo, sputtaniamolo, portando fatti concreti delle sue malefatte, sennò è aria, impanata e fritta. Circa i secondi, oggi editori disposti ad investire soldi ce ne sono sempre meno, quindi chi scrive di locali, spesso lo fa a spese sue. Figuriamoci, se chi scrive, dovesse anche spendere soldi in avvocati per difendersi da querele, solo perché ha scritto che le vongole dello spaghetto puzzavano o che l’olio usato era rancido.

A tutti piace leggere una guida per avere consigli, a pochi spendere per avere quel servizio. Ma se una guida non vende, come fa a sostenere le spese per realizzarla. Idem dicasi per i pezzi sui blog, in alcuni casi non sono recensioni (anonime e paganti), ma reportage, ossia viene comunicato al locale che si ha intenzione di scriverne. Sta poi all’autore del pezzo informarsi preventivamente circa la bontà effettiva di quel locale, perché se poi un cliente ci va e non trova corrispondenza con quanto scritto, ci fa una pessima figura, perdendo credibilità. Personalmente, non sono a favore di questa tipologia di comunicazione gastronomica, ma capisco le motivazioni economiche (“non posso rimetterci, oltre al tempo anche i soldi”) di chi la fa.

Resta il fatto che nella comunicazione gastronomica, sia essa giornalistica che pubblicitaria, ci vorrebbe maggiore professionalità a tutti i livelli. E soprattutto meno persone desiderose di sentirsi Edoardo Raspelli. Soprattutto nel settore pizza, oggi sicuramente quello più presente su blog e affini.
Non facciamo vincere la mediocrazia. Già ce ne è troppa in giro, in tutti i settori.

4 Commenti

  1. Quello che io chiamo “il fascino della mediocrità” è sempre molto forte. Di fronte alla spesa per consultare un vero esperto per la crescita aziendale, (che analizza: lo stato di fatto aziendale, il trend del mercato, i punti di forza e le debolezze della concorrenza; progetta strategie basate sull’immagine aziendale, sul prodotto, sul prezzo, sul canale di vendita, sul packaging e sulla comunicazione interna ed esterna, (giusto per non lasciare nulla al caso)), ci si accontenta di affidarsi al “simpaticone”, che sia esperto o meno in comunicazione (e puntualizzo, saper parlare non vuol dire saper comunicare), interessa ben poco. Semplicemente: “tanto costa solo qualche euro”. Dall’altra parte abbiamo persone che hanno bisogno di mettere il piatto a tavola, o solamente sentirsi protagonisti ed essere trendy, e poco importa quanto si è ferrati sulla materia, che siano salumi, formaggi, vini, comunicazione o quant’altro. Ciò che conta, è che si ha qualcosa da dire e che ci sia qualcuno disposto ad ascoltare. Il vivaio delle “eccellenze campane” germina come i funghi. Alla fine abbiamo il consumatore “medio” che ama frequentare locali di tendenza, ma non ha una propria e chiara opinione di ciò che sia un locale di qualità e si mette alla ricerca di informazioni senza valutarne la fonte. Morale della favola “più si cerca di cambiare e più si rimane come prima”. Poi ci lamentiamo se Report svela alcune sfumature del mondo del food che a molti sfuggono.

  2. Sono molti i punti, gli argomenti, trattati nell’articolo.
    Molti li abbiamo anche discussi e ho espresso le mie opinioni. Su molti temi sono d’accordo.
    Vorrei soltanto soffermarmi su un punto che ripropongo spesso: in Italia manca una critica gastronomica seria e indipendente.
    La comunicazione è una cosa, la critica è un’altra cosa.
    Lasciamo la critica a Tripadvisor?
    E non perché mancano le pa(pi)lle buone, ma perché alla critica mancano le palle, l’indipendenza, l’onesta intellettuale e l’uscita dal conformismo e dall’omologazione dilagante sul web.
    Con le sporadiche eccezioni che confermano la regola.

    Senza critica “vera” rimane il dominio del marketing su tutto e tutti.

  3. Luca quando dici: “Senza critica “vera” rimane il dominio del marketing su tutto e tutti.” io mi chiedo quanta chiarezza ci sia nella consapevolezza degli operatori del settore della ristorazione, e non solo loro, sul concetto di “Marketing”.

    Varie esperienze sul campo fanno emergere che lo stesso concetto per alcuni viene interpretato come “atto di vendita”, per altri come “azioni sul web per promuovere un’azienda” (web marketing, social-media marketing), altri ancora confondono la comunicazione con il marketing, e in alcuni altri casi non si sa neanche cosa sia. Il marketing non è nulla di tutto questo.

    Per cui dire: “dominio del marketing su tutto e tutti” è come pensare che esso sia un corpus di regole o strategie “fatte in casa” atte a manipolare i potenziali clienti affinché acquistino il prodotto in questione.

    Il marketing, innanzitutto è scienza, studia il caso, il prodotto, l’azienda, il mercato, i bisogni da soddisfare dei clienti; poi crea ed evidenzia la “reason why”, le strategie per la competizione sul mercato, progetta gli interventi per la visibilità e la promozione del prodotto, ne controlla i risultati ottenuti sul mercato e se necessario ri-adegua le strategie per ottenere risultati migliori.

    Per cui io qui ci vedo un corpus di attività che prende in considerazione i bisogni del consumatore per soddisfarli al meglio, e non un dominio “quasi manipolativo”.

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