Guida al Pane con una soluzione storica: moderno è meglio di antico!
di Marco Lungo
Il pane è considerato tra i cibi più elementari tra quelli elaborati dall’Uomo, eppure proprio per questo racchiude in sé una notevole complessità, oltre ché una storia millenaria, che pochi raccontano in tutta la sua completezza. Lungi da me volermi cimentare in tale compito, però qualcosa possiamo sempre scriverla e fare anche un po’ di chiarezza su quello che, oggi, è diventato comunque un campo nel quale cimentarsi per i nomi più o meno noti, seguiti di pari passo dalle aziende molitrici.
Le prime storie sul pane risalgono addirittura a 12.000 anni fa, pensate, quando la coltivazione dei cereali si cominciò a diffondere in Centro Africa ed in quella che diventerà poi la Mezzaluna Fertile. Come sia avvenuta tale comunicazione non si sa, anche perché più o meno c’è convergenza storica che circa 9.000 anni fa avvenne un evento di proporzioni planetarie che cambiò molte cose della Vita sulla nostra Terra.
Si ricomincia, quindi, a parlare di coltivazioni e di qualcosa di simile alle farine in coincidenza dell’apparire improvviso in Africa di una civiltà evoluta, la Civiltà Egizia che, a partire dal 2.950 a.C. circa, ha nel suo re Menes colui che unì i due Regni dell’Alto e del Basso Egitto. Quindi, qualcosa prima già c’era, altrimenti, che si univa questo bravo re Menes? Siamo sempre in Africa, quindi, e questo sarà sempre molto importante da tenere presente.
Ora, la lievitazione così come la conosciamo, altro non è che da sempre l’azione di alcuni funghi di un gruppo particolare, chiamato Ascomiceti, di cui un ceppo specifico, quello dei Saccaromiceti, ha sopravvissuto per secoli a tutte le battaglie ambientali e di altri organismi a cui è stato sottoposto, arrivando fino a convincere l’Uomo a dargli una coltura continuativa. Questo avvenne già nell’antico Egitto, più o meno 5.000 anni fa, con la scoperta della prima bevanda fermentata che noi oggi chiamiamo birra ma che in realtà era comunque il risultato dell’aver avuto di fronte, per la prima volta, una fermentazione naturale che era (ed è) il normale prodotto di carboidrati, quindi cereali, immersi in acqua e portati alla giusta temperatura. Ecco perché l’Africa era importante, capitolo primo.
Non a caso, si sono ritrovate tracce analoghe anche in quella che era Mesopotamia, dove il caldo era pressoché analogo e c’era una civiltà sviluppata.
Bene, scoperto questo processo fermentativo, qualche popolo iniziò ad impastarci i cereali dell’epoca frantumati a pietra. Questo conferiva al prodotto finale una diversa morbidezza e consistenza, considerando che i forni veri e propri erano ancora di là da venire e c’erano principalmente pietre lisce rese bollenti al sole su cui cuocere questi impasti primordiali.
Parliamo di fermentazione. La fermentazione, nel senso stretto del termine, cioè che avviene in mancanza di aria, produce anidride carbonica e alcool. Adesso, non è che l’alcool sia proprio gradito in posti dove si suda parecchio, anzi. Magari, aiuta nelle notti fredde del deserto, ma durante gran parte della giornata no. Non solo. Il prodotto così realizzato non durava molto, si degradava presto e non era l’ideale per chi praticava la pastorizia.
L’Esodo degli Ebrei, avvenuto sotto il Regno del Faraone Ramses II, porta quindi ad un’altra scoperta: quella del pane azzimo, non lievitato se non al vapore, che garantiva una maggior durata durante la lunga traversata del deserto, non potendo portarsi appresso ulteriori masserizie. Ecco perché l’Africa è importante: capitolo secondo.
A questo punto, della storia del pane sappiamo che è nato in climi caldi altrimenti la fermentazione non avveniva, che si attiva mettendo dei carboidrati in acqua ed aspettando che la reazione avvenga. Bene. Facciamo un bel salto temporale ed arriviamo alla nostra epoca.
Lasciamo il caldo dell’Africa e pensiamo un attimo a come dovevano fare nel Nord Europa, ad esempio, dove fa un freddo notevole sempre e comunque, quindi la fermentazione / lievitazione non erano facili da innescare a temperatura ambiente. Furono i Polacchi a trovare una soluzione, quasi 200 anni fa, inventandosi il Polish, nome inglese antico della Polonia, che è di fatto un prefermento realizzato in pasta piuttosto acida, perché questo era l’elemento sfuggito precedentemente agli altri Popoli.
Il saccaromiceto, per dare il meglio di sé, ha anche bisogno di un ambiente acido. Per questo, finalmente, si arrivò a circoscrivere il fenomeno della fermentazione ai parametri fondamentali ancora oggi reali che sono temperatura del liquido di coltura, presenza di carboidrati, acqua e acidità che non sia inferiore a pH 5. Questo, per quanto riguarda far crescere il pane o anche fare la birra, perché il processo è analogo sotto molti aspetti.
Nel frattempo, c’è stata una evoluzione anche dei cereali, evoluzione naturale ed evoluzione cercata dall’Uomo. E’ cambiata la materia prima, ed è cambiata profondamente. Si è passati dai primi cereali dell’Antico Egitto, diploidi (cioè con due filamenti di DNA) ai cereali a cui appartiene ad esempio il grano duro (tetraploide, quattro filamenti di DNA), presente in Nord Africa, fino al grano tenero moderno che è un esaploide (non scrivo sei filamenti di DNA, tanto lo avete capito) che è l’ultima mutazione naturale dei nostri amati cereali. L’Uomo è poi intervenuto con selezioni più o meno “naturali” per migliorare alcuni aspetti delle colture, ma questo è un altro discorso.
Il vero passaggio è stato dal grano duro a quello tenero. Il grano duro è, infatti, di consistenza vetrosa di tutto il cariosside (cioè, il chicco), mentre il grano tenero ha un cariosside strutturato che contiene al suo interno una sacca con l’endosperma, che è ciò che la moderna tecnica molitoria estrae come farina, che è anche molto più semplice da lavorare in panificazione.
Poi, ci sono stati dei fattori di diffusione locali più o meno voluti dall’Uomo, cito per tutti ad esempio i molti che oggi parlano del grano Senatore Cappelli e non sanno che deve il suo nome al senatore dell’epoca del Duce che, tra il 1925 ed il 1927, dette questo grano duro tunisino ai braccianti del Sud dell’Italia a condizioni agevolate per rilanciare l’economia del Primo Dopoguerra.
Le caratteristiche dei vari tipi di grano e di cereali sono decisamente cambiate con il tempo. Non c’è più paragone tra un farro piccolo ed un farro spelta, per dire un altro cereale evoluto da diploide a esaploide, in termini di gusto, di resa, di lavorabilità.
Ora, invece, si assiste quasi ad una spasmodica rincorsa verso i “sapori antichi” come se, e chissà perché, debbano a tutti i costi essere migliori dei sapori attuali.
Beh, vorrei dire, ma chi l’ha detto? Avete per caso sottomano un nonnetto di 2.000 anni che ci dica se il pane e la birra di allora erano meglio? No. Usiamo le stesse tecniche di lavorazione dei cereali antichi per tirare fuori gli stessi prodotti di allora? No. Quindi, che cosa stiamo facendo? Marketing, soprattutto.
Non c’è discorso su questo, perché oggi il nostro top dei prodotti è senz’altro superiore a quello di 2.000 anni fa, da qualsiasi punto di vista. La Natura si evolve, noi ci siamo evoluti, non possiamo neanche pensare che secoli di sviluppo umano possano essere stati del tutto inutili. Possono essere cambiati i gusti, questo sì, però un riscontro certo ce l’abbiamo: si vive di più, e sappiamo che questo dipende anche dall’alimentazione.
Quindi, l’azienda alimentare moderna deve impegnarsi a fornire oggi il massimo della salubrità e del gusto in quello che produce, a partire dalle farine e da tutte le altre materie prime attuali. Questo è un impegno che molti si stanno prendendo, ognuno secondo la propria coscienza.
Siamo qui per evolverci, non per tornare indietro.
9 Commenti
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una sola osservazione. In termini evolutivi è formalmente scorretto ed anche fuorviante. usare il termine evolvere. Il processo indicato non è propriamente una evoluzione, il che sottintenderebbe quindi un miglioramento, si tratta piuttosto di una selezione (adattativa e non qualitativa in senso antropocentrico). Per questa ragione non possiamo sapere se le tecniche di cui lei parla siano “migliorative” anche dal punto di vista strettamente umano; nemmeno la supposta maggior longevità costituisce un argomento dirimente in questa direzione. Non resta quindi che sospendere ogni giudizio di merito ed attenersi all’unico aspetto che possiamo valutare oggettivamente, che consiste nell’osservare che: è più “buono” ciò che statisticamente piace di più.
Mah, Gennaro, vedi, prossimamente penso che scriverò qualcosa sulla celiachia, intolleranze varie e allergie, e vorrei quindi anche trattare meglio questo aspetto. Poi, non direi che evoluzione sia a tutti costi un miglioramento, anche se lo lascio sottointendere. Se avessi spazio infinito per scrivere, avrei senz’altro approfondito quello che dici tu, cioé selezione adattativa e non qualitativa, perché poi alla fine, per la scienza, questo è.
Il giudizio di merito, invece, non è proprio da sospendere in toto. Per dire, alcuni cereali antichi sono ancora presenti, addirittura coltivati da ristrette enclavi però, anche trattati con gli stessi metodi di allora, non hanno un sapore accettabile e proprietà nutritive superiori, per non dire di addirittura spacciata terapeuticità di alcuni elementi. Da statistico, poi, ti contesterei anche la questione che è più buono ciò che piace di più, perché dovremmo introdurre il concetto analitico di “chi” è a gustare e a riferire. Manca, perciò, un elemento base, altrimenti stiamo assolutamente nel quantitativo e finiamo per dare ragione a Woody Allen che, al Saturday Night Show di anni fa, prese la parola per pochi secondi e disse: “Mangiate merda. Milioni di mosche non possono sbagliarsi.” :-D
Tutto condivisibile, tranne l’ultima affermazione riferita ad Allen, infatti “se, e ripeto “se, fossimo mosche quella sarebbe indubbiamente la vera discriminante rispetto alla bontà della m…a. Siccome siamo uomini, e non mosche, piaccia o meno, l’unica discriminante rispetto alla bontà di ciò che mangiamo, riferita al gusto e non alle proprietà nutritive, resta la statistica. Ciò che piace ai più, E’ da considerarsi “mediamente” più “buono”, ogni altra affermazione ci riporta alla discrezionalità individuale e come lei certamente sa, de gustibus non disputandum est.
Gennaro, prima di tutto dammi del tu che con il lei mi trovo a disagio proprio, dovunque. Sono assolutamente un niente, il lei lasciamolo a chi crede che gli sia dovuto…
A me questa discussione sul gusto intriga. Perché, vedi, penso allora alle decine di migliaia di persone che ogni giorno vanno da McDonald’s, per dirne una. Tu, che valore daresti alle loro scelte? Peggio. Nel mondo la pizza più venduta non è italiana, neanche un po’, ma Pizza Hut che, se mai ti capitasse di mangiarla… vabbe’, lasciamo perdere.
Ripeto, non ci sto ad equiparare neanche sul discorso “mediamente” buono quello che è condiviso dalla massa. Per forza si ricade in un concetto quantitativo e non qualitativo, tale da non scomodare per nulla i Romani con i loro saggi detti.
Penso che oggi, grazie all’evoluzione anche della scienza alimentare, si possa dire cosa è buono o no in funzione di certi parametri ed elementi misurabili, però dobbiamo metterci d’accordo sul concetto di buono. Quello che affermo nell’articolo è che il buono di oggi è superiore al buono del passato per tutta una serie di valori e qualità nutrizionali che oggi ci ritroviamo e che all’epoca non c’erano. Non è il buon al gusto, e quello come facciamo a misurarlo? Oddio, esiste già un naso elettronico, infallibile, ci manca solo una lingua elettronica e poi abbiamo veramente finito… Quindi, parlo di buono per noi, come esseri umani, come entità che devono sopravvivere sempre meglio e di più. Il pane ha contribuito molto a ciò, come tutti i lievitati che possiamo pensare che si ottengono dalla farina, cambiata tanto negli anni.
Tu che ne pensi?
Vada per il tu.
Anche io sono intrigato e questo da sempre, dal definire alcuni aspetti primari del comportamento umano. Tra questi l’evoluzione del gusto costituisce senz’altro uno dei più interessanti.
venendo al tuo ultimo intervento, dire che, almeno a mio modo di vedere, ilusto è costituito dalla stratificazione di esperienze di diversa natura;, tra le altre la cultura, i vissuto ed alcune caratteristiche comuni riconducibili alla natura stessa degli alimenti. L’insieme di queste esperienze ci porta a definire, individualmente ciò che riteniamo “gradevole” e quindi buono. Va da se che trattandosi di fenomeni complessi, in cui ciascuno di questi aspetti gioca un ruolo importante, il risultato sarà di volta in volta diverso a seconda dell’individuo ma anche del contesto storico a cui si fa riferimento. ciò detto mi pare dunque chiaro che pretendere di indicare univocamente cosa sia o non sia buono, è possibile solo estrapolando quegli aspetti soggettivi che fanno dire ad alcuni, che la m…a è deliziosa:-). e questo può essere effettuato solo su base statistica; ad esempio confrontando le attitudini di culture e storie diverse e verificando, cosa e come esse eventualmente condividano. Naturalmente l’aspetto è complesso e non è possibile analizzarlo in questa sede senza rischiare la banalizzazione, ad ogni modo io così la vedo.
Una ultima considerazione riguardo al tuo riferimento a Pizza Hut. Paradossalmente il successo planetario di simili iniziative, ancorché avvilenti dlla nostra capacità di intraprendere (e non è questa la sede idonea per analizzarne le cause), dimostra che ci sono cibi “buoni” a prescindere, che piacciono ad ogni latitudine ed in ogni tempo(mediamente), e quindi supportano la mia tesi sulla questione. Che poi non sia la pizza “italiana”, credo dipenda appunto dai fatti appena esposti, e comunque, detto per inciso, la pizza italiana non esiste, la pizza è Napoletana:-). Grazie per la piacevole discussione e ciao.
ps
Scusa eventuali errori ma scrivo lavorando, in quanto pizzaiolo:-). Anzi di più, FORSE siamo la più antica famiglia di pizzaioli del mondo, ma per questo debbo cercare ulteriori conferme negli archivi napoletani.
Pizzaiolo??? Grande!!!
Il mio articolo precedente era dedicato alla pizza. No, guarda, Pizza Hut è la vera dimostrazione di quanto siamo deficenti come imprenditori, in Italia. E devi vedere a che punto stanno arrivando i giapponesi. Loro, per fortuna, hanno scelto la tradizione napoletana, per cui stiamo già con ben altro prodotto. Però, devo dirti che una pizza “italiana” sta esistendo di fatto, che non è quella napoletana, ha un altro modo di essere fatta, nel 90% è frutto di mix e preparati che niente hanno a che fare con l’arte pizzaiola, il cliente è rassegnato ormai a star male la notte con bruciori di stomaco ed arsura che levati, quindi, il nostro schifo diffuso c’è già… La Tradizione Napoletana è ben altra cosa, lo so benissimo ed è la mia ammirazione anche se, per specializzazione, ho seguito la pizza in teglia che ha molte difficoltà da superare in termini tecnici per arrivare a un buon prodotto, tanti veramente.
La Napoletana, oggi, potrebbero replicarla in molti ma non ci si mettono, non va bene dappertutto, ci sono i clienti che, come dici tu, ormai hanno un gusto “stratificato” e ti contestano il cornicione alto, la morbidezza che serve per fare il portafoglio giusto, l’impasto che deve lavorare bene anche per il calzone in bocca di forno… insomma, in giro per l’Italia, ne senti tante di storie. Però, nel frattempo, aprono il saccone del preparato nell’impastatrice, mettono l’acqua ed è tutto finito, fino a quando il cliente non mangia una cosa bagnata al centro, con la punta che si piega ed il cammello che lo guarda per tutta la notte… Bene, cosa vuoi dirgli a questi? Sono tanti, mooooolto di più dei Napoletani, eppure mangiano uno schifo di pizza. E un numero enorme di persone nel mondo mangia Pizza Hut. Ora, non pensi che un po’ io abbia ragione a ripetere la frase di Woody Allen? Se ci mettiamo dentro oggi anche un campione qualificato di persone a rappresentare il gusto medio dell’Uomo, la Pizza Napoletana perde.
E questo non può essere, né per te (credo), né per me.
Questo è il problema che a me non va giù, mi spiego?
Marco, con il discorso sull’imprenditoria Italiana rischiamo di addentrarci in un ginepraio, complicato almeno quanto quello sul gusto. Inoltre molto fanno le rispettive convinzioni personali. A mio modo di vedere, ad esempio, una delle principali concause consiste nell’eccessivo drenaggio fiscale che lo stato opera nel confronto di chi intraprende. La pressione al 45% è solo una chimera per un imprenditore italiano, una pizzeria ad esempio per produrre un reddito PRIMA delle tasse, deve sottostare a tutta una serie di balzelli diretti ed indiretti, che hanno di fatto già inciso su quello che sarà poi il reddito da tassare. In queste condizioni, la ricchezza da reinvestire che resta nelle mani dell’imprenditore è sempre poca cosa il che non consente, a chi lo volesse e ne avesse la capacità di realizzare “visioni” ad ampio raggio. Naturalmente come osservato, il discorso è complesso e non mi sembra la sede adatta per affrontare simili argomenti. Rispetto al resto, non ho certezze, in genere di chi pensa che si debba educare gli altri “al buon gusto”, ognuno ha il suo e se chi è più acculturato preferisce pietanze più sofisticate ben glie ne venga, io per parte mia applico la regola per cui da me la pizza si mangia a modo mio, pochi selezionati ingredienti, una carta con una decina di pizze e basta. Questo è l’unico modo per garantire prodotti sempre freschi e di qualità. Come certamente sai, anche nell’economia gioca un ruolo il modello darwiniano standard, per cui chi vivrà vedrà.
Cos’è la bontà di un prodotto alimentare? Qualcosa che si apprezza al palato, o qualcosa di intrinseco, di chimico, che è apprezzato dal palato in modo diverso ma ricco di sostanze nutritive utili all’organismo?
Abituati alle ai sapori industriali, magari di quattro salti in padella o delle merendine kinder è ovvio che la maggior parte della gente non apprezza il sapore di un alimento “naturale” non addizionato con gli E 200 gli E300 con gli addensanti, i solidificanti ecc ecc.
Carmine, qui ovviamente andiamo sul complesso. E’ chiaro che, ad esempio, su questa logica l’alimentazione degli astronauti è perfetta, però nessuno ci aprirebbe un ristorante con quelle cose.
Se si estremizzano i concetti, anche a me piace andare una volta ogni tanto da McDonald’s perché mi piace il BigMac ma senza cetriolo, che mi bastano quelli che la vita mi dà di suo…
Non vanno estremizzati i concetti, perciò e lo ripeto, piuttosto va trovata la giusta misura tra tradizione e innovazione, perché non si può rimanere ancorati al passato, così come non si può dire che l’innovazione sia sempre e comunque migliore. Le cose devono andare di pari passo. Sicuramente è un errore rimanere ancorati alla tradizione, sicuramente è voler innovare ad ogni costo.
Oggi vince chi coniuga tradizione e innovazione, trova dei palati preparati, fa mercato nuovo, imposta anche dei prodotti diversi ma con una base che sia almeno evocativa di un qualche nostro ricordo.
Quello che a me non piace è il marketing subdolo, che ti fa passare, ad esempio, quasi inconsciamente ma scontatamente l’equazione Biologico/Tradizione=Orticello di Casa, del Contadino/Cucina de mamma. Questo va detto e va sconfitto, perché non è così. Poi possiamo discutere quanto vogliamo dei singoli aspetti, però questo è il messaggio che passa e che per me, non essendo per Scienza e Realtà vero, deve essere ricondotto nei giusti canoni per far sì che il consumatore sappia veramente che mangia, con un minimo di coscienza della realtà. Perché io, dal McDonald’s ci vado sapendo a cosa vado incontro. Però, me piace…