Inycon a Menfi: alla scoperta del più grande comune del vino siciliano
di Raffaele Mosca
C’è un singolo paese della Sicilia dove si produce una fetta enorme della produzione regionale. Non è Randazzo o Milo. E nemmeno Vittoria, Marsala o Pachino. Se non l’avete sentito nominare in tempi recenti è perché chi produce da queste parti ha sempre preferito puntare sul brand Sicilia, favorendo lo sviluppo dell’intero comparto dell’isola, che sarebbe stato “monco” in loro assenza.
Nomi come Settesoli e Planeta sono tutt’altro che sconosciuti. Anzi bastano da soli a legittimare la posizione di Menfi , paese di 11.700 anime in provincia di Agrigento, sulla costa ovest dell’isola, al confine con le Terre Sicane e quindi con Palermo, come luogo clou del vino italiano. Dal 1958 la cooperativa più importante della Trinacria garantisce la sopravvivenza di una tradizione vitivinicola che in altre zone è andata perduta.
I numeri sono impressionanti: oltre 3.000 ettari, oltre 2.000 soci, più di 20 milioni di bottiglie totali. In larga parte destinate alla G.D.O, ma anche all’Ho.re.Ca. on la linea di punta Mandrarossa, per la quale è stata realizzata una cantina apposita. E che dire di Planeta? Vito Planeta fu fondatore di Settesoli, Diego ha portato la cantina sociale alle luci della ribalta. Poi, negli anni 90’, è nato anche il progetto privato familiare, oggi tra i marchi più conosciuti a livello internazionale, forte di succursali sparse in tutta l’isola, Etna incluso.
Di recente si è tenuto Inycon, evento che prende l’antico nome della città di Menfi. Un’occasione per riaffermare la necessità di promuovere la doc Menfi, che esiste da 21 anni, ma fino a questo momento ha avuto una risonanza molto modesta. Il paradosso è che le aziende sul territorio comunale sono più o meno una decina, ma solo tre rivendicano attualmente la doc. Oltre a Settesoli e Planeta, c’è Marilena Barbera, vignaiola totalmente diversa per approccio e spirito, stella emergente del mondo naturale che, però, in questo caso ha voluto rinunciare agli individualismi tipici di chi fa parte di questo filone per favorire un racconto corale.
Il territorio comunale, per quanto vasto, ha caratteristiche ben definite: il mare è una presenza costante all’orizzonte, anche quando si sale sopra i 450 metri d’altitudine. Il fiume Belice delimita la zona a nord e l’omonima catena montuosa si scorge ad est dei punti più alti. Nel cuore della zona c’è il lago Arancio, che ha un’importante effetto termoregolatore sulle aree più interne. La zona è anche divisa in contrade che, peraltro, sono molto più omogenee in termini geologici e geografici rispetto a quelle di altri territori, Etna in primis.
Il problema della doc Menfi, semmai, è l’assenza di un vitigno di riferimento. Se sull’Etna dominano Nerelli e Carricante, a Vittoria Frappato e Nero d’Avola e nella vicina Alcamo il Catarratto, qui regna da sempre l’anarchia produttiva. Anzi Menfi è da almeno trent’anni il più grande campo sperimentale in Sicilia. Ricordate il periodo tra fine anni 90’ e primi anni 2000 in cui si parlava della Sicilia come nuova California? L’idea era partita proprio da qui, grazie alle sperimentazioni condotte da Planeta e Settesoli con l’Istituto Regionale della Vite e del Vino e l’enologo piemontese Carlo Corino. I risultati furono straordinari: Corino aveva lavorato in Australia e la sua intuizione di piantare Syrah, Chardonnay e, in quantitativi minori, Merlot e Cabernet Sauvignon, si rivelò vincente. Inaugurò un nuovo capitolo “nuovomondista” della viticoltura siciliana. Poi quel filone ha perso un po’ di vigore, perlomeno fuori del circondario di Menfi. Ma , al netto dei trend passeggeri, è molto probabile che senza quegli esperimenti a fare da ariete di sfondamento, il vino siculo non avrebbe mai acquistato visibilità a livello internazionale.
Ma qual è lo stato attuale del vino a Menfi? Ce lo siamo chiesti durante due masterclass con Armando Castagno e Matteo Gallello e nel corso di alcune visite in azienda. La risposta è che le differenze tra un’etichetta e l’altro sono ancora fin troppo marcate. Il disciplinare consente di produrre Menfi doc da ben 26 vitigni diversi, creando non poca confusione. L’obiettivo nei prossimi anni dovrebbe essere cercare di restringere il campo, scegliendo su quali vitigni puntare.
Sicuramente ad avere maggiore costanza espressiva sono i bianchi. Molto diversi sia da quelli dell’Etna che da altri di zone più vicine come Marsala. La ragione della loro performance più costante potrebbe risiedere nel suolo: “ Menfi è uno dei pochi luoghi al mondo dove si trova il calcare a crinoidi, tipico di alcune delle migliori vigne della Borgogna” specifica Castagno.
La combinazione di solarità aromatica e acidità sostenute emerge a prescindere dal vitigno. Prevale sull’espressione varietale nell’ Urra di Mare 2024, il Menfi doc da Sauvignon Blanc di Mandrarossa, da vigne che toccano quasi la costa, così come nel Fiano Cometa 2022 di Planeta e nello Chardonnay della stessa azienda. Quest’ultimo è forse il vino che ha subito una trasformazione più radicale: per fronteggiare il riscaldamento globale, la famiglia Planeta ha portato parte delle viti sopra quota 400 metri. Il risultato è una versione che gioca sulla finezza e sull’espressione di una mediterraneità garbata. Ma per i nostalgici del “vecchio Chardonnay Planeta” c’è il Didacus, versione più ambiziosa, con un’impronta del legno più marcata.
Stilisticamente totalmente diversi, ma con lo stesso mix di calore ed energia, i bianchi firmati di Marilena Barbera: il primo è Dietro Le Case, dalla negletta uva Inzolia che, piantata a due passi dal mare e macerata sulle bucce, acquisisce spessore tattile ed esuberanza espressiva. Se la 2021 uscita da poco evidenzia qualche rusticitá, la 2012 adesso è in grande spolvero: barocca, esplosiva al naso, ma ancora integra al palato, con la salinità che ravviva, compensando l’acidità bassa tipica dell’uva. Poi c’è Ammano, una delle migliori versioni di Zibibbo secco in circolazione. Anche qui l’annata più giovane, la 2023, marchiata con il numero #13 perché è un semplice vino da tavola, punta tutto su di un’impronta varietale esotica, smorzata appena da un pizzico di volatile. Le versioni più invecchiate, invece, giocano su sfumature più profonde e originali: magnifica la 2019, ovvero la #9, tutta zafferano e cappero sotto sale, con una bocca di tridimensionalità tutt’altro che scontata per un’uva inevitabilmente condizionata nella sua espressione dal grande carico terpenico.
Infine, ci sarebbero i rossi, che, come anticipato, sembrano ancora scostanti. Certo, chi assaggia oggi il Burdese 2020, taglio di Cabernet Sauvignon e Franc di Planeta, ci può leggere un connubio di sostanza e slancio che a tratti ricorda i migliori vini bolgheresi. Ma è più probabile che il vitigno del futuro sia l’autoctono Nero d’Avola, più resistente di qualunque altro a calore e siccità. Marilena Barbera riesce a restituirne una versione ultra-contemporanea con Lu Cori 2023, che ha un frutto irresistibilmente fresco e una beva trascinante. Mandrarossa è l’altra azienda che ci punta da sempre e molto presto trasformerà le versioni di contrada in Menfi DOC. Tra tutte, quella che ci è piaciuta di più è Terra del Sommacco ‘21: da vigne su suolo calcareo, rivela eleganza e sottigliezza fuori dagli stereotipi, senza però rinunciare a un lato mediterraneo che è il tratto distintivo del luogo.

