La pasta e la pizza, lo scheletro anarchico della gastronomia italiana


Mulino d'Oro al Campionato della Pasta 2025

Mulino d’Oro al Campionato della Pasta 2025

di Luciano Pignataro

Pasta e pizza, due eccellenze del Sud che, insieme all’olio d’oliva, costituiscono lo scheletro della cultura gastronomica italiana, una cucina di livello mondiale, figa potremmo dire, che sta per ottenere il riconoscimento dall’Unesco di Patrimonio Immateriale dell’Umanità proprio come è già successo per l’Arte del Piazzaiolo Napoletano e la Dieta Mediterranea che celebra in questo giorni suoi 15 anni targati Unesco.
Forse niente come la pasta riflette la mentalità anarchica italiana, opposta a quella cartesiana francese abituata a codificare tutto. Ci sono centinaia di formati diversi per tutti i gusti e per tutti i condimenti regionali, da abbinare ad una regola che per i napoletani è istintiva: più il condimento ha struttura, più la superfice della pasta usata deve essere ampia. Il motivo per cui con la genovese e il ragù vanno meglio candele e ziti mentre per la carbonara, altro piatto nazionale che ha le sue radici nella tradizione contadina del centro sud il dibattito è aperto.
La pasta è uno dei simboli dell’Italia del mondo che ieri è stato celebrato ovunque. La cucina italiana sta facendo passi da giganti ovunque, non si tratta più di trattorie aperte da qualche emigrante, ma di giovani cuochi preparati che svolgono le loro carriere in altri paesi, persino a Parigi i giovani italiani sono sicuramente un fenomeno grazie alle loro interpretazioni riconosciute anche dalla Michelin.
Proprio perché nata al Sud la pasta ha dovuto affrontare qualche pregiudizio: negli anni ‘90 c’era il racconto secondo il quale i ristoranti che usavano olio e non burro, pomodoro e non sughi di carne, pasta e non riso, non potevano ambire a diventare gourmet. Era uno dei tanti pregiudizi di una critica nata al Nord assolutamente ignara, come del resto l’Artusi, della grande civiltà gastronomica di Napoli e del Regno delle due Sicilie come attestano i ricettari di Vincenzo Corrado e Ippolito Cavalcanti che smentiscono tesi bislacche che fanno sicuramente audience sui social ma che non hanno alcun riscontro con la realtà dei fatti. Prima fra tutte che il pomodoro lo hanno portato gli americani.
Peccato che la ricetta dei vermicelli al pomodoro è riportata nel ricettario di Cavalcanti datato 1836 e che già nel ‘600 era in uso nella cucina e chiamato a Napoli “salsa spagnola”.
Questioni di lana caprina? Fino ad un certo punto perché i pregiudizi sono duri a morire ed è difficile ammettere, anche per ragioni commerciali, che la cucina italiana ha uno scheletro meridionale. Lo ha capito bene Feltri il quale alza bandiera bianca e si rifugia nei pizzoccheri nell’ultimo libro scritto con Tommaso Farina.
La cucina italiana esiste e la sua essenza è nella diversità, riflette la ricchezza culturale e antropologica della nostra Penisola, l’ossessione omologante dell’algoritmo non le appartiene, per fortuna.

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