La pizza napoletana raccontata al Museo Madre, tra memoria e contemporaneità

Chef, pizzaioli, relatori e moderatori insieme al Museo Madre per l’ultima tappa del progetto Praesentia
di Angela Petroccione
Prima di essere un impasto la pizza è un linguaggio, un codice che Napoli porta nel corpo molto prima che nella cucina. Alexandre Dumas la guardava come un emblema popolare, Matilde Serao come il respiro delle strade, due modi diversi di dire che la pizza è sempre stata un dispositivo culturale più che una ricetta. E sabato 7 dicembre, al Museo Madre, durante l’ultima tappa del progetto “Praesentia” promosso dalla Regione Campania, dedicato al dialogo tra cibo, arte e patrimonio, questa natura si è rivelata senza sforzo. La pizza entra naturalmente in un museo d’arte contemporanea perché abita la stessa dimensione, il presente.
È la direttrice del museo, Eva Fabbris, a ricordarlo con una frase che è quasi un metodo: “l’arte contemporanea respira il nostro stesso tempo, esattamente come il cibo”. E la pizza, più di altri alimenti, restituisce ogni mutazione senza perdere memoria. Le pizze in cartapesta di Rosa Panaro, che dal 18 dicembre torneranno nelle sale del Madre, lo dimostrano: opere che non rappresentano semplicemente il disco lievitato, ma il gesto che lo rende vivo, la traccia di chi lo condivide.
Il gesto è il punto, o meglio la consapevolezza del gesto. È qui che si innesta il pensiero di Luciano Pignataro, che non è una definizione ma una chiave: «Un piatto diventa patrimonio quando chi lo prepara sa perché lo fa». La pizza non è patrimonio perché è famosa, ma perché è sorretta da una coscienza, un sapere che non si limita a ripetere, ma comprende ciò che ripete. La tradizione, quando è viva, funziona così, non custodisce, interpreta.
Marino Niola ha mostrato quanto questo sia vero nella lunga durata. La pizza era un cibo pesante perché doveva sostenere chi lavorava, oggi è leggera perché risponde a corpi e stili di vita diversi. Tutto cambia, tranne la sua funzione sociale, resta il luogo dell’incontro, il gesto che accoglie chi arriva, la grammatica spontanea della convivialità. Siamo in un’epoca diversa, ma continuiamo a dire la stessa frase: “andiamoci a mangiare una pizza”. È un codice più stabile dei secoli che attraversa.
Da qui prende forza anche il pensiero di Enzo Coccia, che sembra semplice e invece è una sintesi culturale: “Una Margherita è identità”. È identità perché fissa un punto, non è nostalgia, è radice operativa, quel disco essenziale è ciò che permette alla pizza di reinventarsi senza perdersi. E non è un caso se Coccia aggiunge: “È un piatto quando abbiamo fame, ma è cultura quando abbiamo sete di storia”. Qui sta la ragione per cui la pizza entra al Madre senza chiedere permesso. La contemporaneità non cancella la tradizione: la costringe a dichiararsi.
Roberta Esposito, con la lucidità che nasce dal banco di lavoro, lo dice in un’altra forma: “la tradizione è un ingrediente dell’esperienza attuale, non una cornice rigida ma il punto da cui si riparte ogni volta.” La sua voce porta dentro la pizza un livello ulteriore, la tradizione non è un recinto, è un affidamento.

Da sinistra EnzoCoccia Jessica De Vivo Luciano Pignataro durante la sessione di show cooking dedicata alla pizza napoletana al Museo Madre
Il riconoscimento UNESCO rende esplicito tutto questo, non ha celebrato la pizza, ma l’arte del pizzaiolo napoletano, la mano, il sapere, la continuità del gesto. Antonio Pace lo ricorda con sincerità, “la pizza è italiana perché Napoli è in Italia”, ma la pizza napoletana è napoletana per struttura, genealogia, fedeltà alla sua lingua originaria. Patrimonio è l’artigiano, non il prodotto.
Alla fine, ciò che resta non è un elenco di voci ma una linea comune, la pizza è un archivio vivo, tiene insieme memoria e contemporaneità senza contraddirle, è cultura che si fa, non che si contempla, e un museo d’arte contemporanea è il luogo perfetto per dirlo, perché non esiste spazio migliore per osservare ciò che continua a diventare senza smettere di essere.

