La vera storia della pizza fritta che fa impazzire i napoletani


Sophia Loren in una celebre scena de L’oro di Napoli

di Alfonso Sarno

Immaginate un vicolo dei Quartieri di Napoli brulicante di umanità, di panni stesi sui balconi, agitati dal vento e accarezzati dal sole. Si apre la porta di un “basso” e ne esce una donna che occupa parte della strada con un grosso fornello e due tavolini: il primo con sopra una grande teglia, l’olio, la ricotta, il sale ed il pepe; il secondo con l’impasto di acqua, farina e lievito che inizia a spianare con delicata forza per poi immergere i dischi ottenuti nell’olio bollente mentre i golosi clienti aspettano impazienti di ricevere la calda, fragrante pasta cresciuta avvolta in un foglio di carta; la mangeranno lesti lesti all’impiedi o mentre corrono a faticare per guadagnarsi la giornata. Così Giuseppe Marotta in «Gente nel vicolo», uno dei racconti del famoso libro «L’oro di Napoli» celebra la “fritta”, star della Giornata Mondiale della pizza in calendario ogni 17 gennaio, quando la Chiesa ricorda Sant’Antonio Abate, il monaco egiziano patrono dei pizzaiuoli: i napoletani nei primi anni del ‘900 lo onoravano chiudendo bottega verso mezzogiorno per poi recarsi a Capodimonte dove, dopo un buon pranzo, accendevano un falò in suo onore.

Quest’anno il focus è sulla versione fritta, sì proprio quella magistralmente descritta da Marotta e riproposta in uno dei sei episodi del film tratto dal libro, diretto da Vittorio De Sica ed intitolato «Pizze a credito». Protagonista la giovane e solare Sophia Loren, veracissima napoletana nelle vesti della pizzaiola di Vico Lungo Sant’Agostino degli Scalzi che con le lattee manine prepara le pizze che getta a friggere in una grande padella «dove rabbrividiscono ed assumono, mentre il cucchiaio scientificamente le irrora di olio fumoso, il biondo colore delle ascelle di donna Sofia; gli uomini mangiano per quattro e guardano per cinquanta…».

La masardona

Enzo Piccirillo e la sua mitica pizza fritta

La pizza fritta nel film L’Oro di Napoli

Il film uscì con successo nelle sale nel 1954, a circa 8 anni dalla fine della seconda guerra mondiale e rappresenta il miglior tributo all’inventiva delle donne napoletane che supplirono alla mancanza sia del sugo di pomodoro, costoso e difficile da reperire che dei forni, in gran parte distrutti durante i combattimenti, preparando in casa l’impasto che, soprattutto nei giorni di festa, friggevano e vendevano a poco prezzo davanti alle loro porte, su banchetti improvvisati e servendosi di una rudimentale attrezzatura. La “fritta” piacque immediatamente perché costava poco, era bella calda, dorata e gonfia, riscaldava mani e stomaco in inverno e placava i morsi della fame ma soprattutto consentiva alle intraprendenti, improvvisate pizzaiuole di guadagnare qualche soldo e contribuire all’economia familiare.

Pazienti e consapevoli del tragico momento sociale, con solidale partenopea fantasia inventarono la formula della pizza “a ogge a otto” ovvero i clienti mangiavano ma pagavano dopo otto giorni e col passare del tempo la pizza fritta da semplice, grande e gonfio disco di pasta cresciuta si declinò variamente assumendo forme e dimensioni diverse. «Quant’è bello ‘o battilocchio. Pruove gusto e te avvizze. Pe’ chi tene ‘a moglie pazza. Cchiù te sfrine e cchiu t’appizze.

Pizza fritta- Gino Sorbillo

Pizza fritta- Gino Sorbillo

Quatto sorde, ‘o fenucchietto»: sono alcuni versi della «Rumba d’’e scugnizze» di Raffaele Viviani  dove troviamo citato l’alimento, indiscusso re della categoria e dello street food, certificato dalla fila di clienti davanti ai banchetti delle pizzerie e rosticcerie. Attirati come dal suono del pifferiaio magico dalla  invitante mezzaluna, a mo’ di calzone (attenzione è cosa diversa da questo!) ripiena per lo più di ricotta e ciccioli di maiale oppure da scarole ed olive ma si trova anche in versione “rossa”con l’aggiunta di sugo di pomodoro e così chiamato per ricordare i cappellini femminili che ricadevano, battevano sugli occhi. Il “battilocchio”, per la sua grandezza, si distingue dalla pizza fritta detta “completa” che prevede tra gli ingredienti, mozzarella, ricotta, parmigiano, cicoli o salame, pomodoro. Napoli profuma di mare, di vento e…di fritto: così la sapienza dei pizzaiuoli ma soprattutto delle pizzaiuole  ha dato vita alla “montanara” preparata anche in mini versione e condita, dopo la cottura, con pomodoro, formaggio e basilico. A differenza della tradizionale che dopo essere farcita, viene ripiegata su se stessa oppure coperta con un altro disco di pasta, sigillata e fritta.

Pizza fritta-Vincenzo Durante

Pizza fritta-Vincenzo Durante

Cibi poveri come i panzerotti, pizzelle e zeppolelle ricordati da Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino che nel trattato «Cucina teorico-pratica» scritto nel 1837, ricorda per il pranzo del Martedì Santo le “zeppolelle di baccalà” fritte «dinto a na tiella chiena d’uoglio, e jon, jonne, e asciutte l’accuonce dinto a lo piatto sujo», mentre per il Giovedi Santo consiglia le «pizzelle de pasta cresciuta mbuttunate d’alice».

Maria Cacialli

Maria Cacialli

Le stesse citate da Matilde Serao nel libro «Il ventre di Napoli», pubblicato nel 1884 dove racconta le condizioni miserrime del popolino che con un soldo può avere dal friggitore «quattro o cinque panzerotti, vale a dire delle fritelline in cui vi è un pezzetto di carciofo, quando niuno vuol più saperne, o un torsolino di cavolo, o un frammento di alici». La pizza fitta: da mangiare senza complessi come consiglia la biologa-nutrizionista Alessandra Botta: «La corretta alimentazione è variegata e, quindi, contempla anche la pizza fritta. Importante è non strafare, usare un olio extravergine d’oliva di qualità che presenta un alto livello di antiossidanti e grassi insaturi oppure, in alternativa, un buon olio di arachidi. Chiaramente la stessa attenzione deve essere rivolta agli altri ingredienti utilizzati, dai pomodori alla ricotta e cosi via. Il mio consiglio è di mangiarla come piatto unico. Riempie, sfama con gusto e non appesantisce».

La ricetta della pizza fritta di Sorbillo