L’Isola


I Faraglioni di Capri al tramonto

di Salvatore Toriello

L’eternità è assenza di tempo, in un certo modo è il suo contrario.
Eppure per avere un’idea dell’eternità abbiamo bisogno del concetto di tempo: il tempo infinito assomiglia all’eternità. Allo stesso modo abbiamo bisogno dell’isola, o almeno dell’idea dell’isola – per capire la vastità del mare e degli oceani.


Anzi, è attraverso le isole che immaginiamo i mari e gli oceani: le Hawaii e Tahiti ci danno un’idea dei Mari del Sud e del Pacifico; le Maldive e le Seychelles evocano visioni dell’oceano Indiano; la Groenlandia, l’isola più grande del mondo, ci richiama alla mente l’Artico; le Canarie e le Azzorre danno un volto all’oceano Atlantico. Senza isole queste immense distese d’acqua non avrebbero una fisionomia.
Quanto al Mediterraneo, il piccolo Mare Nostrum, ci si può sbizzarrire a citare nomi di isole: dalle più grandi: Sicilia, Sardegna, Corsica, Creta, Cipro alle meno grandi ma non meno significative:  Santorini, Malta, Capri tutte ci evocano un passato carico di civiltà e di miti. Tutte fanno del Mediterraneo il mare più carico di suggestioni, di bellezza, di arte.
Ma Capri è un caso unico. È, l’isola dalla quale Tiberio governava l’impero romano, che si estendeva su tre continenti, senza provare nessuna nostalgia per la città eterna; è l’isola dove i rivoluzionari russi, Lenin compreso, si rifugiarono dopo le repressioni dell’inizio del secolo scorso in attesa di tornare in patria; è l’isola dove artisti di ogni tipo, da Gorkij a Malaparte, da Diaghilev a Depero, ma l’elenco sarebbe lunghissimo – hanno trovato rifugio e ispirazione.

Capri, la Piazzetta

Cento anni fa a Marina Piccola il grande tenore Feodor Chaliapin cantava la «Dubinuscha», la canzone del Volga dedicata ai lavoratori, mentre intorno a lui gli esuli russi piangevano senza ritegno. D’incanto la spiaggia caprese, piccola e graziosa, si apriva alla steppa russa, grandiosa e desolata. E lo stesso avveniva qualche anno dopo a villa Torricella, dove si riuniva la comunità degli intellettuali europei.
L’isola proprio perché isola era un luogo di libertà. Era terra lontana ma nello stesso tempo era il luogo della «raccolta» Quella comunità era un ghetto, non credo l’elemento del chiuso non era una deriva razziale ma la libertà e di conseguenza la cultura Era un’agora senza recinti, erano l’aria ,il sole, il mare, i profumi,la luce i suoi confini .erano quindi categoria delle sensazioni , non muri e staccati.
L’arrivo era difficile ma anche la partenza lo era!

Félicien Marceau: Capri, La Petite Ile

Capri, petite ile era il titolo di un libro scritto da Félicien Marceau circa mezzo secolo fa. Certo non si può negare che Capri sia un’isola piccola.
La sua grandezza non sta nelle dimensioni fisiche, ma in quelle dell’arte, della storia, della bellezza del paesaggio, nei profumi, nelle atmosfere incantate. Nessuna isola è mai riuscita ad allargare i suoi confini come Capri.
Se si potesse calcolare il fascino di un luogo in relazione al suo territorio, Capri vincerebbe ogni confronto. E Capri che rende il golfo di Napoli seducente, è Capri che rende l’intero Tirreno un mare carico di suggestioni.
Il mare è un mostro terribile, divoratore di imbarcazioni e di uomini, mentre l’isola è la quiete dopo la tempesta. Nell’Odissea, Omero tradotto dal Pindemonte) invoca la Musa perché gli parli di Ulisse, l’uom di multiforme ingegno che molto errò, che sovr’esso il mare molti dentro del cor sofferse affanni. Tutte queste sofferenze, queste prove ardue e fatali, Ulisse le affronta per tornare alla sua Itaca, le affronta per il fortemente desiderato ‘nòstos’, il ritorno alla sua terra, alla sua isola. Tre millenni dopo nascerà la parola greca nostalgia, il dolore di chi è separato dalla sua patria e la sogna come il paradiso perduto. Ma siffatto dolore Ulisse lo provava senza conoscere questa parola.
Lo provava anche nell’Ottocento Ugo Foscolo, che aveva lasciato la sua Zacinto quando era appena adolescente e temeva di non vederla più e la invocava come un’amante perduta: «Zacinto mia» era un sommesso grido di dolore, un presagio di un «nòstos» che non avverrà mai.
È l’isola la terra più desiderata. Forse perché i suoi confini sono più accessibili, più visibili con un solo sguardo, più alla portata delle nostrelimitate possibilità. È l’isola il paradiso che rischiamo di perdere e che possiamo riconquistare. Ma mai per sempre. Sono questa precarietà, questa incertezza che ne accrescono il fascino
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*Questo pezzo dell’amico Sasà è stato appena pubblicato sul periodico L’Isola diretto da Roberto Gianani