L’ispettore Michelin e il fascino del vento del Sud


Rugby, apertura di Morgan Parra (ebbene sì)

di Fabrizio Scarpato

Il rugby è uno sport strano, si avanza passando la palla all’indietro.

Quindici uomini inseguono testardi un di là immaginario: si dispiegano a singhiozzo, si raggrumano con clangore, poi si liberano in un disperato, affannoso battito d’ali, come in un tentativo spasmodico e vano di spiccare il volo. Fasi di gioco, contrazioni del respiro, mantici d’aria nei petti asfittici: finire per ricominciare. Frantumandosi contro insormontabili montagne umane, si voltano sempre indietro a cercare spalle e mani amiche che arrivino a sostegno per andare avanti, insieme. Importa eccome arrivare a schiacciare quella palla bislacca in meta: ma quello che vale è averci provato, con tutte le forze, senza trucchi. Immagino Chabal di fronte a Carlos: un ginocchio a terra, un braccio sul quadricipite possente, l’altro con le dita puntate sul pavimento della cella. Attraverso i capelli che gli si parano lunghi davanti agli occhi, deve averlo fissato in modo convincente, perché il ragazzo, la mattina, aveva trovato la forza di guardare al passato per liberarsi del suo peso, senza barare.

Credo in effetti gli abbia messo una strizza tanta, perché già a Rouen le unghie erano finite. A Parigi invece frusciavano echi di tango, per destino sempre l’ultimo tra gocce di sudore e ritmi sincopati, una musica che seduce nel fulmineo balenare di una calza a rete che s’avvinghia in un gancho assassino. Facile bruciarsi in quell’intimità ondeggiante, nemmen troppo allusivamente intrisa di sesso: impossibile però per un taxi dancer, freddo e artefatto seduttore di donne d’ogni età, adoranti e paganti per un giro con tacco dieci tra gli afrori di una nebbiosa milonga. Detesto ballare e sinceramente non mi fregava niente dell’atmosfera, tantomeno dei dettagli tecnici, ma, più o meno in Borgogna, accade che il collant di una femmina giovane e bella si trasforma nella rete in cui Carlos finisce col rimanere impigliato, tra giochini di gruppo e squallori, fino ad esser stritolato dai ricatti e soffocato dai soldi: da usare, da estorcere, da pretendere. In effetti il ragazzo sembrava scosso da un impercettibile tremore: far la parte del confessore premuroso mi metteva decisamente a disagio, finché, in prossimità di Lione, entrava davvero in gioco un prete, insieme a un altro uomo. A quel punto la mia gola ha cominciato a segnalare una drammatica astinenza da Calvados, fino a lampeggiare assatanata non tanto per il fatto che l’uomo era l’amante ricco e corrisposto del ragazzo, quanto perché il prete era segretamente innamorato della fanciulla stronza con le calze a rete, appassionata di tango, che si faceva chiamare Cris, perché le piacevano… i crisantemi. Dopo questa merda d’intrico, all’altezza di Valence, Carlos sembrava davvero sollevato e infatti si appisolò. Io invece sono rimasto con lo sguardo fisso sul suo gambone ingessato, in qualche modo perché sorpreso e incuriosito dalla firma di Sébastien Chabal, ma soprattutto perché un chiodo di mezzo metro mi si era inopinatamente conficcato dentro, dalla testa fino al cuore.

Mariana è la sorella di Carlos. Gestisce il ristorante di una tranquilla bastide sulle colline di Gordes: bella è bella, capelli ricci, occhi scuri, pelle ambrata e una voce roca , che ti graffia i pensieri. Piove e le formalità del caso mi hanno scassato i camemberts: cercavo distrazione, forse un po’ di tepore e invece diluvia. Mariana mi ha invitato a cena, arrivo tardi: “le preparo qualcosa di veloce”. La sala è confortevole, bei tavoli provenzali bianchi decapati e tovaglie viola, lilla, insomma color lavanda.

Lavanda

A ben pensarci anche porte e finestre sono viola: certo non è stagione, ma non ho mai visto i campi di lavanda in fiore, quelli da cartolina. Sono precisi, nelle loro geometrie, ma irreali. Vellutata di cocco, gamberi e foie gras: meno male che non aveva tempo. Carezze di dolcezza , spunti di freschezza e forza decisa, quella che io non ho mai avuto. Mariana si avvicina al tavolo con una bottiglia: “due italiani più o meno esperti ma confusionari, hanno lasciato un po’ di questo, vale la pena finirlo, se le piace”. Domaine D’Auvenay, Puligny-Montrachet en La Richarde 2000. Il vino di Madame mi piace. Le chiedo se vuol farmi compagnia, i suoi occhi brillano riflessi nell’oro. Mi viene in mente una canzone italiana, abbastanza bella, che parla del cielo in una stanza dal soffitto viola, che non esiste più, quando lei è qui con me. Glielo dico e ride, poi si allontana per tornare con una piantina di lavanda: “se ci prova potrà vederla fiorire anche in Normandia”. Mi vergogno come un ladro. Poco dopo riesco a prendere sonno in una camera dai mille veli zingari, con la testa che mi scoppia e il cuore più leggero.

Non ho nessuna voglia di tornare a Honfleur. Trascino i passi, indugiando con esagerato trasporto su dettagli altrimenti insignificanti, anche perché un sole vergognoso pennella come tempere a crudo gli squarci di macchia mediterranea, i lampi di vigneti, platani e petanquelungo la strada che mi porta ad Avignone. Ne sono affascinato, e capisco Russell Crowe in quel film di Ridley Scott. Sarà per questo che i tetti sul Vieux Bassin sembrano più neri del solito. Per contrasto le facce che incontro mi regalano leggeri sorrisi di compassione. Ovviamente tutti sapevano di me e la signorina Paulette: solo che io sono la vittima, l’incauto amante di una femmina dissoluta, entrambi salvati dall’amore incondizionato di un giovane prete, Paul il priore. Un pescatore li aveva portati a Le Havre e da lì erano partiti per il mare forse con destinazione Argentina. Quel prete rompiscatole ha avuto coraggio, s’è sporcato le mani con la vita: un’occasione che non ha voluto sprecare. Io invece, vivacchiando con una schifiltosa presunzione di innocenza rispetto a ciò che mi circonda, non mi sono mai reso conto quanto fosse necessario giocare la partita: a costo di fare del male, perché tanto prima o poi gli altri ne fanno a te, inevitabilmente, involontariamente, come nel rugby. Ed è sempre doloroso farsi trovare impreparati. Ora non posso far altro che fissare il cratere sulla parete, scavato da un’infinità di presuntuose freccette, precisamente fuori bersaglio.

Domani è Natale. Se devo imparare a pestare i piedi, tanto vale cominciare in famiglia. Così mi sono proposto per la cena della vigilia qui a casa. Mia madre ha abolito le pattine e tolto un’infinità di centrini, dice che vorrebbe dare una rinfrescata in primavera, togliendo la carta da parati. Non so perché, ma ho consigliato un bel color lavanda, ma soprattutto non so perché lei abbia detto di sì. Gerard e Annette continuano a progettare la loro brasserie: la vogliono chiamare La Rouge, come il peschereccio. Non mi oppongo, coltivo anzi il desiderio ancora inconfessato di potermi occupare della cantina, una cosa piccola, forse divertente, non so. Manca un cuoco, però. Intanto stasera facciamo le sogliole alla normanna con moulescrevettes, e sidro del migliore.

Sogliole alla normanna

Avanza anche una cassetta di gamberi belli grossi: mi tremava un po’ la voce e stento io stesso a crederci, ma ho telefonato a Mariana, giù nel Luberon, per vedere se potevo azzardare la vellutata di cocco di quel giorno. Mi ha fatto piacere sentirla. Ma la vellutata è troppo complicata: mi ha dettato mille ingredienti con la promessa di risentirci, tempi e ristorante permettendo. Alla sera telefona e gioca a mettermi in difficoltà: va bé, dice spazientita, ho capito. Suonano alla porta: gli occhi neri di Mariana luccicano di tutta la vitalità dei colori del Sud: “Avevo ancora una bottiglia di Madame Lalou: ma ora fatti da parte, stupido, altrimenti mettiti un grembiule e dammi una mano”. Ridiamo.

Buon Natale

All’imbrunire, sui moli del porto un Babbo Natale gigantesco intrattiene un gruppetto di bambini con una palla ovale: all’improvviso si gira verso di me e mi saluta. Nell’alzare il braccio il vestito rosso troppo stretto si strappa all’altezza di spalle e bicipiti. I bambini ridono divertiti. Très bien, caro vecchio Séb. Buon Natale.

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