L’Ispettore Michelin / Fenomenologia di un risotto


Pier Giorgio Parini, Riso in Bianco

di Fabrizio Scarpato

Sono andato a vivere da solo, senza spostarmi di un metro.

Mia sorella ha visto bene di prendere casa col suo pescatore, e nostra madre, fingendo di giocare a testa o croce, ha scelto lei, come vittima intendo, e si è trasferita armi, bagagli e centrini.

La casa della Gendarmerie, liberata dai centrini di pizzo, urla la sua gioia, repressa per anni. Ne è rimasto uno solo: l’ho appeso in bagno, accanto all’accappatoio, a lato della doccia. Preso così da solo, mi dà un’idea di purezza, di pulizia: un fiocco di neve. Qualcosa vorrà dire, ma non mi va di pensarci troppo. La gioia eccessiva lascia spesso spiacevoli strascichi, e tali sono le macchie di vuoto lasciate inopinatamente sulla tappezzeria a giglio di Firenze. Ho usato maniere forti ma certi segni, certe ferite che ti sei portato dietro per una vita, rimangono aperte, visibili. Tutto sommato va bene così e qui e là ho camuffato un po’, venendo a patti coi rancori: in salotto per esempio ho appeso un poster gigante che immortala il placcaggio mostruoso di Chabal su un malcapitato all black, che, un istante dopo, a malapena avrebbe scommesso di chiamarsi Chris Masoe. Ne sono contentissimo. Chabal un po’ meno, e sembra guardarlo con un’aria triste e pensierosa come di chi invece qualche nodo da sciogliere nello stomaco ce l’ha ancora. E’ a questo punto che viene sempre in soccorso un buon bicchiere di calvados per alzare lo sguardo e ricominciare.

Sarà che sta per iniziare il Sei Nazioni e siamo entrambi un po’ nervosi. Fortuna che i miei crisantemi continuano a darmi soddisfazioni: ne sono sbocciati di molto belli e ora si possono vedere anche dalla strada, al posto delle ortensie di mia madre, che ho potato senza pietà, perché vecchie, perché monotone, direi quasi orrendamente sedentarie. Non al passo coi tempi, insomma.

Sébastien Chabal

Ci pensavo in questi giorni, allungato su una poltroncina dello Chat qui Peche: Honfleur sembra cambiata negli ultimi anni, i pescatori si sono spostati all’imbocco del Vieux Bassin e ora c’è meno puzzo di pesce sul porticciolo. Le ore della giornata, una volta scandite dai ritmi della pesca, ora vivono di momenti inaspettati: le chiacchiere, i negozi e di recente la gente che corre, tutta vestita di colori sgargianti, madida di sudore e apparentemente felice. Io guardo, col mio berretto calato sugli occhi, cercando di evitare il minimo movimento che possa procurarmi fatica: molti corridori sono proprio patetici coi loro passettini da papera asfittica, altri ci danno dentro per poi morire all’inizio della salita, pochi invece son belli da vedere, nel loro gesto atletico. Se poi, come nel caso di una ragazza che passa immancabilmente la mattina presto, il tutto si armonizza elegantemente col ritmo fluente di una coda di cavallo bionda che ondeggia davanti al mare, beh allora qualcosa è veramente cambiato. Babette ridacchia mentre mi allunga il primo sidro della giornata, ma non ci faccio caso. Io me ne sto qui, ai margini di tutto, praticamente invisibile, di fatto sconosciuto. Mi piace da morire e sarei quasi trasparente se non ci fossero i miei fiori che parlano per me.

Anche se qualcosa di vero ci deve essere. Ho comprato un telefono di quelli che consentono di fare tutto, oltre telefonare, beninteso: soprattutto sembra che quel coso aiuti a testimoniare a noi stessi che esistiamo. Pare non esserci miglior sistema, se non quello di fotografarsi. Da soli. Ebbene sì, l’ho fatto anch’io: solo che nella foto non c’ero, ero rimasto fuori dall’inquadratura. Spuntava solo la punta del mio dito e sullo sfondo la gigantografia di Chabal che se la rideva. Anche Babette ha riso tutto il giorno e avrei potuto tenere una lezione sulle prove della mia inesistenza se sulle pagine del giornale non avessi letto delle convocazioni della nazionale italiana di rugby per il Torneo: c’era anche lui, il biondo riccioluto e belloccio che tre anni fa ci stese con un calcio da tre punti all’ultimo minuto. Giocava da noi, nel Racing, poi s’è sfasciato un ginocchio e ha ricominciato daccapo, in una piccola squadra, in un campionato minore, in qualche cittadina sul delta del Po, in Italia. Ora, dopo un anno, è tornato, e Chabal ha smesso improvvisamente di ridere. Brutti presentimenti: era venuto il momento di preparare un risotto, perché, nonostante mi pesi ammetterlo, gli italiani, in cucina come nel rugby, a volte riescono a sorprendermi.

 

In fondo è una manifestazione d’affetto: il risotto, voglio dire. Ed è roba da uomini, sebbene abbia imparato a farlo da mia madre: ma lei non lo capiva, saltabeccava da una parte all’altra, dimenticandosi di lui, che non era solo un banale risotto, ma un delicato, possibile gesto d’amore. E di solitudine: per questo prettamente maschile, vagamente autolesionista, sicuramente venato di quella imprescindibile indulgenza vanagloriosa dell’uomo contemporaneo. Fragilità che si sostengono a vicenda, quella del riso e quella del cuoco, passaggi e gesti sovraccarichi di una ritualità sciamanica e al tempo stesso espressione di una leggerezza amorevole, di attenzioni, alla fine di partecipato abbandono. Io lo preparo ogni volta che mi va, spesso incompreso, eppure ostentando assoluta nonchalance: e mi immedesimo, tentando di accarezzare un ruolo da protagonista che nessuno da queste parti riconosce a un pugno di riso, tanto meno a me, che non possiedo né il pugno, né il riso. Il mio risotto è quasi sempre bianco, al massimo vestito di tenui sfumature nei dintorni dell’avorio, mai colorato: e anche questo qualcosa vorrà pur dire. Piano piano lo vedo trasformarsi sotto i miei occhi, lo sento rispondere docile alla mia mano, lo conduco alla mia idea: insomma, la costruzione di un amore, in time-lapse. Non abbreviazione, semmai sintesi di significati: indefinitamente veloce, in un anelito di lentezza. Sarà per questo che un risotto si prepara da soli, ma si mangia in due. Sarà per questo che il più delle volte sono già sazio alla fine della mantecatura: c’è un piatto solo in tavola, ne assaggio un cucchiaio e lo butto via.

Crisantemi coreani (foto tratta da Il mondo in un giardino)

“Scusi, ispettore, se la disturbo, ma vorrei sapere, se posso, come ha fatto a far fiorire quei carinissimi crisantemi coreani in questa stagione. Mi perdoni se sono stata indiscreta”. La ragazza con la coda di cavallo aveva improvvisamente dirottato la propria corsa verso di me, sbarellandomi come un telefono che suona nel cuore della notte. Da vicino non la si poteva più definire propriamente una ragazza, e me ne rallegrai, pur restando ostinatamente muto. D’altra parte cosa vuoi dire a una che usa termini come “carinissimi”. “Ecco, sono stata sgarbata, mi scusi: facciamo che se le andrà di svelarmi il suo segreto metterà tre crisantemi bianchi sul davanzale…” e riprese a correre, dopo un sorriso forse già oltre il limite della presa per i fondelli. “Buon per lei che non ha detto crisantemi rossi” ho pensato, con evidenti sintomi di rincoglionimento: non era proprio il caso di comunicare con i fiori, e nemmeno era tempo per provare il più setoso dei miei risotti. Rincoglionito del tutto vidi Chabal che mi guardava torvo, coi capelli sulla faccia come nemmeno quell’appiccicosa bambina in quel film di Gore Verbinski: e all’improvviso, in qualche anfratto polveroso del mio cervello, scoppiò l’insano e vendicativo proposito di tirar fuori da chissà dove quel vecchio paio di Adidas da corsa. Per bruciarle. L’indomani mattina presto, molto presto.

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