Menu Degustazione / Cappun Magru, Manarola


Cappun Magru, Cappon magro

Cappun Magru, Cappon magro

di Fabrizio Scarpato

Questa è una storia di contrabbando, perché non è autorizzata e si diverte a correre arbitrariamente a cavallo del confine tra realtà e fantasia, facendosi bella dei rapporti casuali tra le persone, e ciondolando sorniona e veloce su certe assonanze, su coincidenze, su repentini passaggi di tempo, portati a spalla da occasionali e furtivi passeurs della memoria. Lampi rivelatori e stordimenti musicali che si accompagnano a litanie di pesciaioli, a vaghi ritmi dervisci che girano sulle spine dorsali, alla disperata ricerca di un senso. Perché questa storia, come molte altre storie, un senso, forse, non ce l’ha.

Si fa strada nella nebbia il ricordo di un piccolo ristorante, forse bianco, belle luci di quelle coi faretti a filo che li potevi abbassare e far risalire con un saliscendi a contrappeso, una credenza ottocento, magari novecento, millecinquecento scatole d’argento, fine settecento ti regalerò. Per dire come vola il tempo… ma in quella metà degli anni ottanta, a Sarzana, Maurizio Bordoni, il protagonista suo malgrado di questa storia, il tempo lo cavalcava spostando le lancette dove e come voleva, più facilmente indietro ma per tracciare attimi di futuro, se è vero come è vero che alle chateaubriand, ai rognoncini, alle penne alla vodka e al risotto con le fragole, lui preferiva sgombri, polpi e palamite: pesce dimenticato, ancor prima che povero, secondo la successiva moda di appiccicare etichette. Te lo raccontava arrossendo e guardando un punto indefinito sulla tovaglia, comunque quanto bastava per intravedere un certo consistente filo di passione in quel ragazzo timido e gentile. C’era la musica alla Giara, e una sera per la prima volta sentii Creuza de Ma’ scivolare lenta e avvolgente nell’aria, mentre rimiravo un’insalata di muscoli con patate, carote, zucchine e forse altri ortaggi, distesa sul piatto come non si faceva, come sarebbe stato solo dopo, dopo i dripping, dopo i bottoni, dopo. Colori e sapori, mentre le voci di Caterina e Pino il muscolaio rimbalzavano lontane, sotto le tettoie del mercato di piazza Cavour, magnificando giancheti, bòghe, anciue, arxèle e i muscoli de Spèsa, che i spagnoli ne ghe nan, e Creuza sfumava nell’attacco insolente e levantino di oud e bouzouki in Jamin-a.

Cappun Magru, cucina artigianale

Cappun Magru, cucina artigianale

Dice che il ragazzo timido poi se ne andò in giro, non so dove, forse a Bologna, forse sulle navi, forse a farsi una padellata di fatti suoi. In effetti col nuovo millennio ritornò a Groppo di Riomaggiore con moglie, tedesca: più fatti suoi di così… Anche perché ora sarebbe stata lei in prima fila: gentile, affabile, capiva anche di vini, con una certa predilezione per i riesling (e quando sono buoni nemmeno le Cinque Terre possono avere a che ridire). Finalmente, al Cappun  Magru – A casa di Marin, Maurizio Bordoni avrebbe potuto solo cucinare, e da solo. Salivi la stretta scala della casa terratetto in cima al borgo e lo cercavi alla tua sinistra nella piccola cucina, prima di accomodarti  nella altrettanto minuscola saletta: tre, quattro tavoli e un balconcino, il mare lontano, il rumore dei tacchi delle donne di città che saliva dal caruggio, voci di bimbi nelle sere d’estate, un piatto di cappon magro da ricordare, un bicchiere di Walter De Battè e magari una Chartreuse o un Rum, dopo, sul terrazzino, annusando il vento salmastro della notte. Lui cucinava e poi se ne andava, lasciandoti la casa: non c’era bisogno di presentazioni e salamelecchi. Una sola volta sono riuscito a intravedere il suo cappellino di paglia bianco, dietro i vetri, la tesa abbassata sugli occhi, come un esile diaframma di protezione.

Siamo arrivati ai giorni dei cuochi inevitabilmente chef, agli show, e forse Groppo per uno che vuole solo cucinare poteva risultare addirittura particolarmente sovraesposta, e non è che scendere a Manarola potesse apparire una soluzione sensata, tra turismo che va e che viene, magliette, ricchi premi e cotillons. A meno che… una casetta, un baretto, un bugigattolo accanto alla chiesa, all’inizio della discesa, ma anche alla fine della salita, non faccia al caso tuo. E il Cappun Magru trasloca, e come spesso succede nei traslochi, cerca di tralasciare il superfluo e portare con sé solo quel che serve, un viaggio a ritroso fino al punto di partenza, mettendo in una scatola ancora più piccola, meno cose, meno oggetti, i soliti quattro tavolini, ma in modo da far spazio alle idee, che pesano poco e fanno star meglio.

Venti metri più in là parte il sentiero per Volastra, una pettata di un’ora che all’inizio attraversa il Presepe di Manarola, che affolla e abita la collina proprio sopra il Cappun. Materiali di risulta, lastre, taniche, plafoniere, tagli sbilenchi, cavi e fili, disegnano pastori e re magi, asini e buoi, guerrieri e operai: visti di giorno sono come un’operazione a cuore aperto, un dietro le quinte, un rigattiere ordinatamente disordinato, un manifesto di artigianalità ingenua e al tempo stesso di coraggio visionario, partito dal niente e approdato a centinaia di figure. Mi piace pensare che Maurizio Bordoni abbia scelto anche per questo di portare il Cappun Magru sotto il Presepe, e proprio lì servire il suo cappon magro, un tempo messo su dal niente con quel che avanzava, e che oggi lui ricostruisce pane dopo pane, pesce dopo pesce, salsa dopo salsa, aglio dopo aglio (pure un cicinin di troppo) in un equilibrio mirabile sia strutturale che gustativo, abbellito qua e là dal colore dei muscoli, dalla sapidità dell’acciuga, dall’agro della giardiniera, dalla ricchezza iconoclasta e provocatoria di un’ostrica probabilmente del Golfo, che certo non è di risulta, ma che ci sta bene, un po’ naif, come i delfini colorati nel presepe, che i delfini mica c’erano a Betlemme…

La signora impellicciata stretta tra due tavolini, fatica a districarsi tra spazio e delusione: cappon magro non ce n’è più. Era meglio ordinarlo, alla voce, prima di fare un giretto. Avrebbe potuto trovare conforto anche in uno scorfano in bianco, condito con carciofi, patate e giardiniera. O nei panini, grosse rosette schiacciate non banali: il mio era di polpo alla zavorrista e mozzarella: spazzolato. Per non dire del vino, in certi casi da urlo, e comunque intrigante, con capisaldi e nuove entrate nell’universo Cinque Terre, anche in mescita. Forse, per dire, un loro perché lo avevano anche i garganelli al sugo di chianina o persino un riso alla milanese con l’ossobuco.

Cappun Magru, Scorfano

Cappun Magru, Scorfano

Ecco, qui il salto carpiato è evidente: Bordoni fa quel che gli pare, quello che gli gira, quello che passa il mercato. Lo cucina e lo serve nelle bislunghe, da spartire tra tutti, finché ce n’è. All’impiattamento pensa la moglie, lui fa il cuoco. Spaghetti, riso, acciughe, hamburger, coniglio, ravioli, frittate… quando càpita, càpita. “Dov’è Maurizio?”. Di sotto, al piano di sotto, sotto strada, nella pancia della discesa di via Discovolo. Invisibile. Prendo un biglietto: Cucina Artigianale Ligure. Artigiano, mica artista, tanto meno tradizionalista, che anche sui sentieri noti si possono avere visioni, suggestioni, magari giallo zafferano. Alla parete una lampada ricorda le acciughe quando fanno il pallone, che sotto c’è l’alalunga, e se non butti la rete, non te ne lascia una: ancora De André, ancora metafore. E se questa storia può avere un senso, mi giocherei il centesimo sulla dimostrazione che oltre a raccontarlo, farlo, usarlo, interpretarlo, forse un cuoco può essere egli stesso un territorio: coi gesti, col modo di essere, in una sorta di immedesimazione libera, silenziosa e appartata, in questo caso tutta ligure, che forse ancora una volta guarda più avanti, è già oltre.

Cappun Magru, lampada

Cappun Magru, lampada

Per il resto, alla fine se tutto questo un senso non ce l’ha…fateci caso… forse fuori c’è  un bel vento: domani un altro giorno arriverà.      

Cappun Magru
Via Antonio Discovolo
Manarola   

2 Commenti

  1. Pezzo bellissimo. Bellissimo. Sensazioni che in tanti abbiamo vissuto, e riaffiorano a pelle. Nostalgia. Voglia di tornarci.
    (Chissà se alla dolce tedesca gli è rimasta quella bottiglia di Rum Damoiseau dell’83 che non mi volle vendere benché già avviata…)

  2. De Andrè non c’è,De Battè fa il mercenario nelle Marche.Rimane il mio piccolo motto:vini dal freddo o di montagna da bere al mare.FM.

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