Stefano Capelli di Ca’ del Bosco: i lieviti indigeni uniformano i vini e non esprimono il terroir, meglio quelli selezionati


Stefano Capelli

Lunedì scorso si è svolta una splendida verticale di Annamaria Clementi organizzata dall’Ais Campania a Sorrento nel corso della quale l’enologo Stefano Capelli ha spiegato molto nei dettagli i processi di vinificazione adottati dall’azienda di Maurizio Zanella entrando di fatto nel merito di alcuni temi molto dibattuti: uso dei lieviti indigeni o selezionati, problemi legati ai solfiti. La tesi di fondo sul primo tema capovolge di molto il senso comune che si è affermato, ossia che i lieviti indigenio non solo non esprimono il territorio ma omologano i vini. Noi non siamo tecnici, ma modesti cronisti del vino: preferiamo lasciare la parola a Capelli. La lettura è lunga, mi rendo conto. Ma forse non si vive solo di commenti flash a effetto:-)

La vinificazione: pratiche segrete
di Stefano Capelli

Nel mondo antico (così come oggi) chi faceva questo mestiere, ignorante o colto che fosse, lo faceva con estrema discrezione, nascondendo le proprie pratiche come segreti di fabbricazione.
I processi di vinificazione sono stati costantemente in evoluzione, sebbene non vi sia traccia precisa delle sue tecniche antiche.
Possediamo poche informazioni sulle antiche tecniche del fare vino, mentre possediamo un enorme documentazione sulla storia delle vigne. Perché?
Le ragioni possono essere due:
• si dava tutta l’importanza alla conduzione della vigna, che era un’attività contadina come un’altra. La vinificazione era ritenuta un’attività secondaria. Si beveva il proprio vino così come veniva.
• si conduceva la vinificazione a proprio modo, in gran mistero. La cantina di vinificazione era un po’ il luogo sacro del rito vinoso.
La seconda ipotesi è la più verosimile.

Le tappe fondamentali che riflettono le conoscenze dell’epoca
Chaptal ci fece intravedere una scienza tecnologica, Pasteur ce ne ha dato le chiavi d’accesso, Jean Ribereau-Gayon ed Emile Peynaud l’hanno resa evoluta, insegnata e applicata.
Possiamo definire l’anno 1600 (Olivier De Serres) come l’inizio di un periodo nel quale furono acquisiti i fondamentali del fare vino.
Con Chaptal, nel 1800, si passa dall’empirismo affinato all’evoluzione delle tecniche e all’ascesa della qualità.
Con Pasteur (1866) si accede all’era delle scienze applicate, della microbiologia, della chimica e delle prime analisi sulla composizione del vino. L’uomo si specializza, apprende e insegna il modo di lavorare. Pasteur diviene l’Autore enologico.
Da Pasteur fino alla metà del XX secolo l’uomo comincia a comprendere il “perché” di certi fenomeni.
Dal 1947, con il “Traité d’Oenologie” di Jean Ribereau-Gayon, si sviluppa l’era dell’enologia moderna; l’enologia diventa una scienza riconosciuta ed insegnata.

La relazione di Stefano Capelli al Sorrento Palace

La “naturalità” del vino è merito dell’uomo
Niente è meno realista di un certo “ecologismo vinicolo” che si immagina che dall’uva al vino la via sia tracciata per natura.
Già nel 1807 Chaptal scriveva: “La natura lascia marcire le uve in pianta, mentre l’arte ne converte il succo in vino”.
La natura non fa altro che una parte dell’opera: donarci le uve.
Colui che nega la preminenza dell’uomo non può che avere una visione esteriore e superficiale della vinificazione. O meglio, non è a conoscenza della verità.
Fare vino senza arrivare all’aceto è un’operazione, in qualche modo, contro natura. I “vini naturali”, senza prodotti o metodi di conservazione, non sono mai esistiti.
Gli antichi cuocevano il mosto, lo concentravano, lo salavano, l’aromatizzavano. Ogni artifizio era buono per evitare che il vino divenisse aceto.
Queste qualità sono garantite solo se si adotta un buon metodo di vinificazione.
L’obiettivo dell’enologia moderna è l’operare in modo razionale, in maniera preventiva, più ragionata. Il vino deve essere appetibile, piacevole da vedere e da bere.

Queste qualità sono garantite solo se si adotta un buon metodo di vinificazione.

Fieri di essere vignaioli
Nella conduzione dei vigneti seguiamo il protocollo di “viticoltura integrata”. Stiamo sperimentando su 17 ha, in conversione, la conduzione secondo il protocollo “viticoltura biologica”.
Siamo stati tra i pionieri su questa terra: abbiamo avuto la possibilità di piantare i vigneti nelle zone più vocate.
Conduciamo direttamente 160 ha di vigne.
L’età media dei vigneti è superiore ai 20 anni.
Il 20% è allevato con densità di 10.000 ceppi/ha e nel totale delle vigne in conduzione l’84% ha densità > 5.000 ceppi/ha.

La vendemmia – atto primo
Tutte le uve vengono raccolte a mano in piccole cassette da 16 kg ciascuna, per evitare lo schiacciamento dei grappoli.
Studio approfondito della maturazione, vigna per vigna, consci del fatto che il momento ottimale di raccolta delle uve non è una data da fissare sul calendario, ma è una scelta fatta andando in vigna, assaggiando gli acini e studiando la maturazione con l’analisi di campioni d’uva prelevati 3 volte a settimana.
Così facendo siamo in grado di ottenere, sempre, il miglior vino possibile, prescindendo dai condizionamenti climatici che caratterizzano ogni millesimo.

La vendemmia – atto secondo
La cernita manuale di tutte le uve viene effettuata da occhi e mani esperte, per togliere tutto quello che non merita di diventare mosto.
L’uva conferita viene identificata e codificata per tenere traccia della vigna d’origine.
Per conservare il suo potenziale qualitativo, l’uva appena vendemmiata viene raffreddata in cella (a 16°C) e successivamente pressata a bassa temperatura.
Tutti i processi di ossidazione e fermentazione sono rallentati.
Un sistema di depallettizzazione, trasporto e rovesciamento di ogni cassetta consente all’uva di essere trasferita sui tavoli di cernita senza schiacciamento degli acini.
Tutti i grappoli vengono attentamente controllati e selezionati a mano: solo da uve sane si possono ottenere grandi vini.

“Le terme degli acini”
Da oggi i nostri vini sono più buoni, più digeribili, più puri e, proprio grazie alla tecnologia, più naturali.
Un punto fermo del metodo Ca’ del Bosco: il lavaggio dell’uva.
Un percorso di circa 5 minuti attraverso 3 vasche di ammollo, con i grappoli che galleggiano e avanzano per borbottaggio d’aria.
1° stadio, prelavaggio: ~ 1,5 minuti
2° stadio, lavaggio: ~ 2 minuti
3° stadio, risciacquo finale: ~ 1 minuto
Grandi volumi d’aria soffiano e aspirano l’acqua residua sui grappoli, assicurando un’asciugatura completa.
Lo possiamo definire un idromassaggio dell’uva in tre fasi, una specie di Spa del grappolo: le nostre “terme degli acini”.
I vantaggi qualitativi sono molteplici. Si pensi al facilitazione del metabolismo fermentativo dei lieviti: niente profumi ridotti, niente sfumature inespresse.
Da oggi i nostri vini sono più buoni, più digeribili, più puri e, proprio grazie alla tecnologia, più naturali.

I sommelier Ais Campania impegnati nel servizio

Ammostatura e solfitazione a basse dosi
I mosti di prima qualità, per ricercare la massima espressione di ogni piccolo terroir, sono vinificati per singola vigna. Solo dopo 7 mesi di affinamento saranno assemblati per dare origine alle nostre 7 cuvée di Franciacorta.
Pressatura dei grappoli interi a bassa pressione, con frazionamento del mosto in 3 qualità.
Prima frazione = circa il 45% del peso dell’uva
Seconda frazione = circa il 20% del peso dell’uva
Terza frazione = circa il 5% del peso dell’uva
Le aggiunte di anidride solforosa sono ridotte al minimo grazie al rigoroso sistema di controllo dell’igiene con sanificazione ad ogni ciclo di pressatura e grazie all’utilizzo di gas inerte contro l’ossidazione dei mosti in fase di spremitura.
Bassa flora microbica, portando in pressa solo uve sane
+
Corretta igiene dell’impianto e delle cassette
+
Poco ossigeno in pressatura, utilizzando gas inerte
=
Minimo ricorso ai solfiti

I mosti di prima qualità, per ricercare la massima espressione di ogni piccolo terroir, sono vinificati per singola vigna. Solo dopo 7 mesi di affinamento saranno assemblati per dare origine alle nostre 7 cuvée di Franciacorta.

Maurizio Zanella con Livia Iaccarino e Nicoletta Gargiulo

I lieviti e la fermentazione
La maggior parte di questi lieviti si sviluppano nei primi stadi della fermentazione, per poi sparire, a causa della scarsa resistenza all’alcol, lasciando spazio ai saccharomyces, che finiscono per dominare.
Lavando l’uva non si eliminano completamente i lieviti “indigeni”. L’uva non viene sterilizzata!
Sull’acino rimangono ancora molti lieviti, di tutti i generi, compresi i lieviti “di cantina” raccolti dai grappoli e dal mosto durante il loro percorso di lavorazione.
Abbiamo notato che i nostri mosti, puliti e con pochi solfiti aggiunti, mantengono una miriade di microrganismi diversi, molto attivi, che si adattano meglio e si moltiplicano più velocemente. In qualche ora la popolazione passa da 100.000 a 100.000.000. La fermentazione spontanea si potrebbe avviare in meno di 4 ore.
Tuttavia siamo convinti che questi lieviti indigeni, per la maggior parte appartenenti ai generi non-saccharomyces, tendono a uniformare i vini, coprendo i caratteri distintivi dell’uva e del terroir. Ciò che i fautori della “fermentazione naturale” chiamano “gusto di terroir” si riduce in realtà ad un melange di alcoli superiori, acetati e odori fenolici prodotti da questi lieviti non-saccharomyces. I vini prodotti in questo modo si assomigliano, quale che sia il loro terroir.

La maggior parte di questi lieviti si sviluppano nei primi stadi della fermentazione, per poi sparire, a causa della scarsa resistenza all’alcol, lasciando spazio ai saccharomyces, che finiscono per dominare.

L’impiego di lieviti selezionati, garantendo l’avvio rapido della fermentazione alcolica, ci consente di limitare l’uso di solfiti senza rischiare l’ossidazione precoce dei mosti.
Ca’ del Bosco ha scelto di utilizzare lieviti del genere saccharomyces, selezionati.
L’aggiunta massiva di un ceppo selezionato lo rende dominante, ma i microrganismi indigeni presenti non vengono eliminati e continuano a svolgere il loro ruolo, finchè le condizioni del mosto lo permetteranno.
Il ceppo selezionato da noi scelto ha un’influenza relativamente bassa sulla tipicità dei nostri vini: la sua principale qualità è di condurre la fermentazione, dominandola, ma senza causare deviazioni organolettiche.
Non abbiamo scelto tra i lieviti selezionati quelli generici o caratterizzanti, ma un lievito neutro, proprio per non intaccare il carattere di ogni vigna.

L’impiego di lieviti selezionati, garantendo l’avvio rapido della fermentazione alcolica, ci consente di limitare l’uso di solfiti senza rischiare l’ossidazione precoce dei mosti.
L’uso del legno in fermentazione e in affinamento
Se ben usata, la barrique è il modo migliore per elevare un vino all’eccellenza.
Tutti i lotti delle cuvée-base dei Franciacorta Millesimati e Annamaria Clementi, separati per vigna d’origine, vengono elevati in barrique.
Grazie alla prolungata permanenza in barrique sui lieviti di fermentazione (dalla vendemmia fino all’assemblaggio), i vini si esaltano nel loro profilo aromatico e incrementano il loro «spessore».
In decenni di attività, Ca’ del Bosco ha appreso come usare al meglio la barrique. La consideriamo uno strumento fondamentale di elaborazione, che tuttavia non deve assolutamente «marcare» l’aroma.
Se ben usata, la barrique è il modo migliore per elevare un vino all’eccellenza.

Affinamento sui lieviti: l’ossigeno entra in bottiglia
Con bottiglia sdraiata l’ossigeno che entra dal tappo viene assorbito dal vino. Non arriva fino al lievito depositato sul fondo. Il vino lo consuma prima.
Con bottiglia in punta, invece, l’ossigeno entra direttamente in contatto con il lievito, che lo consuma in parte.
Durante l’affinamento sui lieviti esistono dei microscambi gassosi tra l’interno e l’esterno della bottiglia. Piccole quantità di ossigeno permeano attraverso il “tappo a corona” e altrettante piccole quantità di anidride carbonica fuoriescono all’esterno della bottiglia.
La velocità di scambio dipende dal tipo di guarnizione del tappo a corona.
Ogni anno possono entrare in bottiglia da 0,15 a 1,2 mg/l di ossigeno. In 10 anni, complessivamente, entrano da 1,5 a 12 mg/l di ossigeno. La perdita di anidride carbonica (CO2) può variare da 0,05 a 0,6 bar/anno.

L’ossigeno al dégorgement
Per limitare questo choc ossidativo, attraverso la liqueur si aggiungono solfiti (SO2), generalmente alle dosi di 15 o 30 mg/l. Ma l’effetto di questa aggiunta non è così scontato, in quanto tutte le bottiglie ricevono la stessa dose di SO2, ma potrebbero aver ricevuto dosi variabili di ossigeno.
Il dégorgement è un’operazione che contribuisce a modificare il contenuto gassoso del Franciacorta.
La perdita di CO2 è significativa, circa 0,5-1 bar, ma l’impatto più importante è l’assorbimento di ossigeno (O2), in quanto questo influenza direttamente la qualità del vino in futuro.
Con dégorgement tradizionale l’ossigeno che si introduce in bottiglia può variare da 1,2 a 8,5 mg/l. Da questo punto di vista, il dégorgement è causa di forte eterogeneità tra bottiglie dello stesso lotto: più schiuma si forma nel collo della bottiglia, meno ossigeno rimane.

Il Metodo Ca’ del Bosco
Riduzione drastica dei solfiti al dégorgement
– O2 = – addizioni di antiossidanti e solfiti (SO2) – SO2 = vino più puro e salubre – SO2 = – composti solforati sgradevoli – O2 = – ossidazioni = – composti amari (chinoni) – O2 = – ossidazioni = + longevità del Franciacorta
Effettuando il dégorgement in assenza di ossigeno, possiamo ulteriormente ridurre la presenza di solfiti. Uno degli aspetti a cui teniamo di più.
I nostri Franciacorta sono longevi: molto longevi.
Questa tecnologia consente l’eliminazione di ossigeno prima della tappatura.
Noi abbiamo fatto una scelta diversa.
Siamo gli unici al mondo ad utilizzare una speciale macchina tappatrice. L’abbiamo ideata noi. E’ stata brevettata nel novembre 2005 da Stefano Capelli, enologo di Ca’ del Bosco, e dal progettista Piero Bielli.
Questa tecnologia consente l’eliminazione di ossigeno prima della tappatura.
Effettuando il dégorgement in assenza di ossigeno, possiamo ulteriormente ridurre la presenza di solfiti. Uno degli aspetti a cui teniamo di più.
I nostri Franciacorta sono longevi: molto longevi.

Il Metodo Ca’ del Bosco
Solfiti e solfitazione
Nel corso degli anni la legislazione ha sempre cercato di abbassare i limiti di dosaggio.
Grazie al continuo monitoraggio e sorveglianza di ogni fase del processo di vinificazione, possiamo permetterci di ridurre al minimo le aggiunte di solfiti.
L’anidride solforosa è un gas naturale, incolore, molto solubile in acqua, dalle molteplici qualità.
In enologia viene utilizzato per le seguenti proprietà:
• antisettico, in quanto si oppone allo sviluppo dei microrganismi
• antiossidante e antiossidasico, poichè previene la maderizzazione dei vini
• protezione dell’aroma dei vini, in quanto fa sparire i caratteri di svanito (acetaldeide)
L’SO2 è classificata come un allergene: anche a basse dosi può causare problemi agli asmatici.
La legge impone di indicare sull’etichetta la presenza di solfiti se il contenuto è superiore ai 10 mg/l. Si considera che 10 mg/l possano essere tollerati se ingeriti da persone sensibili.
La D.G.A. (dose giornaliera ammissibile) di solfiti stabilita dall’O.M.S. (Organizzazione Mondiale della Sanità) è pari a 0,7 mg/kg/giorno, che per una persona di 70 kg equivalgono a circa 50 mg/giorno.
I vini senza solfiti non esistono, in quanto l’anidride solforosa “naturale” è autoprodotta dal lievito durante la fermentazione alcolica, in misura variabile, da 10 mg a valori anche maggiori di 30 mg/l, a seconda del ceppo di lievito. I lieviti “commerciali” producono meno solfiti rispetto a quelli “indigeni” in quanto sono selezionati secondo questo criterio.
Se la flora microbica è bassa poiché l’uva è sana, se si lavora con elevata igiene d’impianto, se si elimina l’ossigeno durante pressatura, l’imbottigliamento e dégorgement: solo così facendo ci si può permettere di usare dosi minime di anidride solforosa!

Il Metodo Ca’ del Bosco
La scelta di dichiarare in etichetta i solfiti presenti nel vino in bottiglia
Sulla contro-etichetta di ogni lotto di vino confezionato viene riportato, con incisione laser, il valore dei solfiti realmente contenuto, espresso in mg/l di anidride solforosa totale.
La normativa europea impone la menzione “Contiene Solfiti” in etichetta, a partire da 10 mg/l.
Questa dicitura obbligatoria vale indistintamente per tutti i vini, sia che contengano 11 o 200 mg/l di SO2 totale (limite massimo per vini bianchi).
Non esiste neppure una soglia sotto la quale si possa riportare, ad esempio, la menzione “Contiene pochi solfiti”.
Ca’ del Bosco ha rotto gli indugi. Non ha nulla da nascondere.
Ha deciso di compiere un’azione per certi versi estrema: dichiarare quanta anidride solforosa c’è effettivamente nei suoi Vini e Franciacorta rispetto al massimo autorizzato dalla legge.

Sulla contro-etichetta di ogni lotto di vino confezionato viene riportato, con incisione laser, il valore dei solfiti realmente contenuto, espresso in mg/l di anidride solforosa totale.

9 Commenti

  1. Mi sembra significativo mettere questo post accanto a quello di ieri su Sangiorgi: in mezzo il vino, l’idea di vino. Descritto e fatto. Io certo non ne capisco come Sangiorgi e tantomeno conosco l’enologia ai livelli di Capelli: tuttavia mi sembra evidente la distanza tra critica e pratica, quasi a confermare che il vino, come dicevo ieri, è una serie di gesti, inclassificabili, o meglio già insiti nella parola “vino”. Indipendentemente da come: che i principi di Capelli sono certamente validi per grandi produzioni e soprattutto per fare Franciacorta riproducibili, ma non credo inficino le idee e le pratiche di un produttore da mille bottiglie. Ma entrambi fanno vino, correttamente, mettendoci sempre un po’ di se stessi, alla faccia dei solfiti, delle bucce, delle camarille, dei banchetti e dei baffoni.

  2. quantomeno opinabile che i lieviti indigeni uniformino il vino
    ci dica che un vino industriale non può permettersi il lusso di fare a meno di lieviti selezionati e sarà più credibile

  3. Concordo con te Fabrizio, ma non comprendo per quale motivo si debba affermare il contrario di quello che “praticamente” osserviamo.
    Sarebbe bastato dire, che so, “operiamo con cura, tanta passione, e preferiamo fare i vini così. Anche perché ne facciamo tanti e li portiamo in giro per il mondo, con la necessità di dover essere riconoscibili.”
    In sintesi:no ai vini che potrebbero “puzzare”, che si corre il rischio che due bottiglie “puzzino” diversamente. :)

  4. talvolta le vendemmie costringono il produttore ad impiegare delle soluzioni necessarie per poter risolvere tutta una serie di problematiche che possono capitare dalla vigna alla cantina, non bisogna estremizzare o demonizzare certe “pratiche di soccorso”, è anche vero che non è da tutti scorgere le proprietà olfattive conferite ad un uvaggio coi suoi stessi lieviti ricavati dalla vigna ed è più semplice ricorrere a lieviti selezionati che diano maggiore intensità al bouquet e riconoscimenti eclatanti! Certe affermazioni scabrose del tipo “lievito indigeno non fa territorio” devono essere combattute e a questi finti “ambasciatori del territorio” va detto che non devono sovvertire la verità perché i lieviti selezionati possano così diventare la regola, a questi signori va detto che nei territori in cui le coltivazioni sono sane e dove si è ovviato da generazioni a pratiche ecosostenibili i lieviti indigeni si sono preservati e fanno territorio, eccome!!! Solo chi ha il “naso corto” non può scorgerlo, solo chi ha depauperato i propri terreni con prodotti chimici intensivi deve usare per forza lieviti selezionati e alloctoni……un termine di paragone può essere e non è affatto fuorviante la differenza che intercorre tra una donna facile che prontamente si denuda e una donna che concede il suo tesoro e la sua intimità solo a colui che sa comprenderla e conquistarla, è esattamente la stessa differenza che passa tra un vino con lieviti selezionati e dai profumi eclatanti, intensi, belli e preparati come le femmine già pronte a letto appunto e i vini autentici coi loro autentici lieviti che non si rivelano facilmente, non a tutti ( vedi anche la difficoltà di percepire la grazia di vini come certi Pinot Noir). E allora?

  5. Consiglio al Dott. Capelli di leggersi un po’ di letteratura scientifica su terroir e lieviti: uno fra tutti:
    Mazzei P., Francesca N., Moschetti G. and Piccolo S. (2010) NMR spectroscopy evaluation of direct relationship between soils and molecular composition of red wines from Aglianico grapes. Analytica Chimica Acta, 673 (2): 167-172. doi:10.1016/j.aca.2010.06.003.
    dove si dimostra che i descrittori che discriminavano i diversi aglianici erano per la maggior parte metaboliti microbici

    1. Un mio personale ringraziamento e debito di riconoscenza al sig. Giancarlo Moschetti.

  6. Il Prof.Moschetti ha dimostrato che si possono coniugare le due scuole di pensiero (convergenze parallele) con il suo lavoro sperimentale condotto in collaborazione con Stepa-Cepica di Avellino: Isolamento lieviti autoctoni da vitigni di Fiano di Avellino, selezionati e utilizzati da 29 cantine irpine nella vendemmia 2011.
    Si rispetta il territorio (tipicità), si guida il processo di vinificazione ad evitare deragliamenti!

    1. Delle, chiamiamole pure così, scuole di pensiero quella che asserisce che “lievito autoctono non fa territorio” è quella delle due che parte da una premessa errata, volutamente errata e per due ragioni: la prima è avere una costante gusto-olfattiva che piaccia a prescindere dal territorio, la seconda è che gli interventi pesanti in vigna hanno fatto “tabula rasa” della flora microbica che è chiaro che te la devi andare a pescare, facendo selezione altrove. Ed è grazie alla filosofia di evitare i deragliamenti che non c’è più differenza al bicchiere tra una vendemmia e l’altra.

I commenti sono chiusi.